recensione del libro da parte di "Annessi & Connessi" a questo indirizzo:
http://annessieconnessi.net/racconto-di-fine-storia-f-bwaffete/
http://annessieconnessi.net/racconto-di-fine-storia-f-bwaffete/
Racconto di fine storia
Capitolo 1
risveglio
Buio.
Un fottuto buio che ti impedisce anche di pensare.
La prima cosa che ho visto appena ho aperto gli occhi mi ha spaventato. Intorno a me c'erano troppe persone, vestite di bianco. Un'unica persona era vestita in maniera differente e solo tempo dopo ho capito chi fosse.
Tutto quel rumore, quegli strumenti, il sangue. Tutta quella maledetta luce.
Ricordo ben poco di tutto quello che è successo quella notte ma un paio di cose che mi ricordo benissimo sono il rumore e la luce.
Un rumore non ben definito, un'accozzaglia di voci, suoni, del battito del mio cuore ed una luce fastidiosa, abbagliante, che fa male agli occhi.
Tutte quelle fottute mani che ti toccano, che ti tengono fermo, che cercano qualcosa.
Solo dopo qualche giorno avrei capito che in realtà quella sarebbe stata la mia nascita o, più precisamente, la rinascita.
Esatto: rinato.
Non ricordo niente prima di questo. Niente.
La mia vita ha inizio in questa ambulanza: apro gli occhi e vedo i medici affannarsi su di me, la luce diretta negli occhi, quella maledetta sirena accesa, gli sballottamenti continui e tutti quei legacci del cazzo che mi impediscono i movimenti.
Quello che si dice “alzarsi con il piede sbagliato”.
Ripiombo nel buio e quando riapro gli occhi vedo un soffitto bianco che scorre velocemente dall'alto in basso. Intorno altre persone, mi stanno portando chissà dove ma questo non mi interessa. La prima cosa che mi viene in mente di fare è alzarmi e riesco a farlo.
I medici si spaventano, come non si aspettassero una cosa del genere e fermano la corsa del lettino cercando di sdraiarmi. Dico cercano perché uno di loro scatta prendendomi il braccio e premendomi sul petto, dolcemente, per sdraiarmi e, come risposta, ottiene un pugno in faccia. Ma forse è uno sforzo eccessivo che avrei potuto evitare. La vista, infatti, mi si offusca e sento il dolore alla mano, la osservo e vedo il sangue sul palmo, fra le dita, sul braccio, sulla maglietta e sui pantaloni. Sono pieno di fottuto sangue. La cosa che non capisco è perché mi fa male la mano mentre nel resto del corpo non sento niente.
Mi passano nella testa mille pensieri:
chi sono, perché sono qui, che mi è successo, chi sono queste persone, sono diventato paraplegico, no perché sono seduto sul lettino e riesco bene o male a muovere le gambe, a scalciare, mentre gli altri medici mi tengono fermo per legarmi al lettino. Già, non ve lo avevo detto, mentre stavo pensando a tutto questo (subito dopo il pugno in faccia al medico) tutti gli altri mi si sono fiondati addosso e mi hanno immobilizzato. Credo di averne colpiti un altro paio, ma senza ottenere niente.
Di nuovo il buio. Il fottuto buio.
E silenzio. Troppo silenzio.
Un sussulto e apro gli occhi di scatto, come se mi risvegliassi da un incubo. Non ricordo subito cosa è successo. Piano piano ricollego quello che è successo e avanzo un ipotesi su dove mi trovo: in ospedale.
Poi mi prendo in giro da solo dicendomi che sono di una perspicacia stratosferica.
La vista si abitua poco a poco alla luce e riesco finalmente a guardarmi intorno. Macchinari generici, flebo, altre lettini. Una grande finestra da dove entra una luce calda. Ne sono sicuro perché sento i raggi del sole scaldarmi dolcemente le gambe.
Fuori deve essere una bella giornata. Sento pochi rumori, tuttavia gradevoli, come il cinguettio di chissà quali volatili, fuori, le macchine in lontananza.
Qui c'è silenzio.
Pace.
Non credo di essere qua per una fottuta vacanza. Cerco di riprendermi ma sono intontito. La sensazione che provo è come quella di risvegliarsi in un prato dopo essermi strafatto di anfetamine durante un concerto psichedelico. Ho in bocca una strano sapore, non riesco a capire di cosa si tratta e vorrei tanto avere qualcosa da mordere.
Mi sento la mandibola debole e voglio togliermi questo saporaccio di cane bagnato dalla bocca.
Cerco di capire perché sono lì ma non ricordo niente. L'unica cosa che capisco è che ho una mascherina fastidiosa sul viso, penso per aiutarmi a respirare. Faccio per toglierla ma mi accorgo di avere una mano legata alla sbarra del letto. Ho delle fottute manette che mi tengono legato al letto.
“Ma che cazzo ho combinato?”
La mia voce risuona in quella maledetta mascherina e quasi mi spaventa. La tolgo con l'altra mano e mi tiro su, a sedere sul letto.
Queste coperte hanno un fastidioso odore di “nuovo”, di “pulito disinfettato” che trovo molto sgradevole. Le scosto e mi ritrovo ad osservare le mie gambe, il mio corpo.
Indosso delle mutande nere e una maglietta XL bianca. Non ho proprio un fisico da palestrato ma non mi posso lamentare. Osservo il mio corpo per la prima volta.
Le mie mani sono rugose, sembrano mani da manovale o cose così, ma non ho calli.
Le mie gambe sono grosse, muscolose e con delle cicatrici. Sembrano fori.
Non credo siano collegate a quello che mi è successo, sembrano vecchie di anni.
Alzo la maglietta e scopro di avere un fisico niente male, dopotutto. Chissà se faccio qualche sport.
Ma l'unica cosa che ottengo a pensare al motivo per cui sono lì, o a chi sono io, è un mal di testa e un po' di nausea.
Chiudo gli occhi, cercando di non pensare, per riuscire a farmi passare il mal di testa e vedere di capire cosa sta succedendo ed intanto entra qualcuno nella stanza. Non so chi sono ne perché mi trovo lì ma una cosa è certa: non voglio far vedere che ho ripreso i sensi, per ora.
Si avvicina qualcuno, sento il suo profumo precederlo, anzi, precederla. È una ragazza. E che ragazza. Sento i suoi tacchi bassi battere lentamente ed in un modo così leggero sul pavimento che rimango come ipnotizzato da quel ritmo così dolce, subito interrotto dal pesante passo di un uomo. Il suo odore è fastidioso. Si tratta certamente di uno schifoso dopobarba da due soldi, buttato abbondantemente sul volto e sul collo, per risparmiare sul profumo e darsi un aria da macho.
La voce dell'uomo risuona nella mia testa come il motore di una merdosa macchina vecchio modello che non vuol sapere di partire. È la classica voce roca da sbirro ligio alle regole, senza iniziativa personale. Le uniche cose intelligenti che riesce a dire sono una domanda su come sto e una considerazione sulla bella giornata che è fuori, dopodiché si avvia verso la porta “per non disturbare”.
La ragazza odia quell'uomo. E non crediate che sia una specie di indovino. Semplicemente quando si allontana lei si lascia scappare un “era ora che ti togliessi di torno”.
Poi si rivolge a me chiedendomi come mi sento.
La mascherina, accidenti.
Ho dimenticato di rimetterla.
Apro gli occhi, e il suo sorriso è una cosa così bella da farmi dimenticare tutto. La prima cosa bella che mi sia capitata da quando sono nato per la seconda volta.
Mi gira intorno, controllando che sia tutto a posto e cambia la flebo. Mi concede anche una specie di paternale sul fatto che non avrei dovuto togliermi la mascherina o muovermi su e giù per il letto. Le dico che mi sento bene e ho fatto tutto lentamente, cercando di non sforzarmi o esagerare.
Ovviamente sto mentendo. E credo lo sappia anche lei perché mi guarda come si guarda un bambino sporco di cioccolata che dice di non sapere niente sulla nutella sparita dall'armadietto.
Cambio argomento e le chiedo se sa perché sono lì ma come risposta ottengo solo un “mi dispiace, io sono qui solo per controllare come stai”. Le faccio qualche domanda di carattere generale, del tipo che giorno è oggi, che ora sono, dove ci troviamo e cose così, per vedere se riesco a collegare qualcosa.
Ma ottengo solo di riempirmi la testa di cose inutili.
Inoltre la mia voce è bassa, affannosa e ho la bocca che sembra piena di colla. Non so in che stato posso avere la faccia ma di certo non sono un bello spettacolo. Dopo poche domande mi sembra di aver corso per mezz'ora.
Dopo che ha finito di fare il suo lavoro va ad informare il poliziotto fuori dalla stanza che mi sono ripreso e mentre si allontana non posso fare a meno di notare il suo bel sedere, oltre a quel corpo snello e a quell'aria da donna di mondo, più che da infermiera.
Prima di uscire si volta facendomi l'occhiolino e augurandomi buona fortuna.
Arrossisco e balbetto qualcosa.
Cavolo, che pretendete?! Non me lo aspettavo..
Gran bella femmina. Ah, si chiama Silvia.
Entra lo sbirro. Tronfio, vanesio, quasi come fosse felice di avermi lì e il merito fosse tutto suo. Il merito di cosa, poi, non si capisce.
Mi guarda sorridendo a denti stretti e mi dice
”finalmente ti sei ripreso, bastardo”
Nei suoi occhi scorgo come una luce strana, ma in quel momento non ci faccio caso. I miei pensieri sono ancora focalizzati sulla bella infermiera e lui mi riporta alla realtà bruscamente.
Rimango come pietrificato a quella sottospecie di domanda e ruoto gli occhi intorno, come si fa quando si cerca una risposta e l'unica cosa che mi viene in mente é “si..buongiorno anche a te, amico. Sai dirmi perché sono qua o comunque cosa ho combinato?”
Subito dopo mi accorgo che avrei fatto meglio a starmene zitto o, almeno, l'impressione è stata questa, vedendo la faccia che ha fatto il poliziotto alle mie parole.
“Ah, e così il bell'addormentato non si ricorda niente, adesso.
Cos'è speri di cavartela facendo finta di non ricordarti niente ed ottenere l'infermità mentale? A che gioco stai giocano kharal?”
“kharal?”
“si, kharal! O vuoi far finta di non ricordarti nemmeno il tuo nome d'arte? Preferisci essere chiamato con il tuo nome vero?”
“forse non ci siamo capiti bombolo. Io non so chi sono, non so cosa cazzo ci faccio qui, non so chi sei te e posso dirti, in assoluta franchezza, che non me ne fotte una beata minchia”
Il poliziotto ora mi guarda come fossi un bastardo della peggior specie e stringe i pugni. Brutto segno. Cala il silenzio per alcuni secondo e poi gli chiedo se può spiegarmi cosa è successo. Per favore.
Mi osserva per una manciata di secondi. Sembra spaesato e ha la faccia di uno che vorrebbe urlare ma può solo accontentarsi di starsene in silenzio.
Solo ora mi accorgo che i lettini intorno a me sono vuoti. Non c'è nessuno.
Mentre ci penso guardo in basso e scorgo dei segni sulle mie mani. Ho una cicatrice sulla mano destra, che prende tutto il palmo. Sembra una ferita da taglio. Mentre sulla sinistra ho una specie di stella gigante sul dorso. E dei tagli sui polsi.
Mentre sono impegnato ad osservare le mie braccia il tizio ricomincia a parlare. Mi chiede se veramente non mi ricordo niente.
Io scuoto il capo e lo osservo.
“niente” rispondo.
Forse il mio sguardo o forse i milioni di esami per confermarlo che mi hanno fatto dopo lo hanno convinto, ma una cosa è certa, non ne era felice. O, almeno, così mi è parso di capire quando mi ha detto:
“non so dirti se questo è un dono o una condanna per te, ma se vuoi un consiglio prega che non ti torni mai la memoria”
Rimango perplesso e mi vengono in mente sempre più domande, oltre a quelle che già mi stavo facendo prima, ma alla fine ne faccio solo una, chiedendogli chi è.
“Un poliziotto” risponde. Mi spiega brevemente che lui è quello che mi dava la caccia.
Gli chiedo perché e lui risponde semplicemente
“perché sei un assassino. Ma non un assassino normale, no. Un fottuto pazzo che si diverte ad infierire sulle vittime, che le tortura, le fa a pezzi e si compiace di tutto questo.”
Ci penso un po, guardandolo in modo strano, poi mi metto a ridere, chiedendogli se è una candid camera ma ottengo semplicemente un “no.” secco, duro, fastidioso. Proprio come il suo dopobarba.
Uno sbirro puzzolente, una dolce infermiera e il fatto che sono un pazzo furioso. È tutto quello che so della mia vita, oltre al fatto che sono ammanettato ad un letto di ospedale.
Ed solo il mio primo giorno.
Capitolo 2
assassino
Mentre valuto la mia posizione ecco che il tizio ricomincia a parlare elencandomi quelli che sono i miei diritti mai io, ormai, non l'ascolto più. Sto ancora pensando a cosa ci faccio lì, a cosa posso aver mai fatto, al sangue, a tutto quel sangue che ricordo di essermi visto addosso.
I giorni successivi li passo da una clinica all'altra, parlando con psicologi di dubbia fama e facendo analisi per vedere il mio stato psichico o qualcosa del genere.
Tutte cose di cui avrei volentieri fatto a meno.
Scopro di chiamarmi Matteo Arghetti, 24 anni, consulente finanziario, killer seriale. O, almeno, questo è quello che mi dicono. Il mio nome non mi dice niente. È il classico nome da sfigatino che passa la vita sotto i libri o davanti al computer a infastidire ragazze in chat.
Se devo essere sincero odio il mio nome.
Il mio angelo custode si chiama Luigi Palandro. È una specie di detective, ha affermato di darmi la caccia da diversi anni e di essere quello che potremmo considerare la mia controparte, il mio peggior nemico /amico. Ha 35 anni suonati ma è maledettamente in gamba o, almeno, così mi pare di capire dalla storia che mi ha raccontato.
In breve mi ha fatto capire come è riuscito a catturarmi:
era sulle mie traccie da parecchio tempo, come già detto, ed è riuscito a capire la zona dove si trovava il mio “rifugio”. Il luogo dove portavo le mie vittime. “Quali vittime?” gli chiedo, in uno dei nostri colloqui. “quelle che non sono riuscito a salvare” risponde lui.
Non c'è che dire, un vero eroe con il senso del dovere.
Poi mi fa un elenco sommario:
Roberto Massimi e coniuge Martina Borghi, Alessio Cinga, Elena Pirati e coniuge Alessandro Bongiu, Saadia Haled, coniuge Hakdim Mohammed Bel Azim e figli Hamed e Bhilaa e l'ultima vittima che sei riuscito a portarmi via quando ti ho preso: Kiara Misetti.
Mi indica una catasta di fascicoli vicino a me. “guardali” mi dice.
Apro uno ad uno i fascicoli, lentamente e guardandolo negli occhi ogni tanto. Quello che vedo non mi provoca emozioni, a parte forse dei leggeri rivoltamenti di stomaco. Gli chiedo se sono davvero io quel pazzo fottuto che può aver fatto una cosa del genere a queste persone. A delle donne poi e, soprattutto, a dei ragazzi appena maggiorenni ed ottengo un ovvia risposta “si”.
Gli chiedo perché ho fatto tutto questo e come risposta ottengo queste parole:
“questo devi dircelo tu. Io non ho idea di cosa ti passi in quel cervello malato”.
Purtroppo però, di risposte io non ne ho e lui lo sa bene. I medici hanno detto che la botta in testa è stata molto forte e l'ipotermia non mi ha giovato.
Ah, giusto, non vi ho raccontato cosa è successo.
Novembre 2009, mi trovavo nel mio rifugio, una casa in montagna abbandonata da tempo dai precedenti proprietari in cui io avevo trovato il modo di entrare. Niente di strano, mi serviva qualcosa utile allo scopo e dopo varie ricerche ero riuscito a trovare questa casa, secondo la ricostruzione dello sbirro.
Tra marzo 2005 e novembre 2009 avevo compiuto 10 omicidi. Quello forse la giuria avrebbe potuto “perdonarmelo” ma sicuramente non sarebbe loro andato giù il fatto che io avessi infierito sui corpi, torturando quei poveracci fino allo stremo. Dai rilevamenti è venuto fuori che io non torturavo soltanto, ma addirittura curavo le mie vittime. Per non farle morire subito, per “giocare” il più possibile con loro.
“Giocare? Come mai questa parola? Non è un po macabra?” chiedo allo sbirro. Ma lui si limita a sorridere a denti stretti e mi dice che il modo in cui hanno ritrovato i corpi lascia supporre queste parole.
Poi continua, raccontandomi come è riuscito a prendermi.
Dopo lunghe ricerche era riuscito a capire chi fossi, anche grazie a dei piccoli errori da parte mia. Che volete, dopo 4 anni uno qualche piccola cazzata può farla.
Stavo andando a “lavorare” e, per fare prima, avevo preso l'autostrada. All'uscita mi sono trovato di fronte una squadra al completo di poliziotti che controllavano chi entrava ma soprattutto chi usciva. Anche il grande capo era lì, a controllare che fosse tutto in ordine.
Non ero particolarmente agitato, non era la prima volta che succedeva ed ero sempre riuscito a cavarmela tranquillamente. E ci sarei riuscito anche questa volta, se un piccolo errore da parte mia non mi avesse fatto scoprire. Nella fretta, infatti, mi ero messo la felpa al contrario. Non me ne ero reso conto, a quanto pare.
“Un genio del crimine..” mi prendo in giro da solo.
I poliziotti, non appena mi hanno visto, mi hanno chiesto cosa diavolo ci facevo in giro con una felpa al contrario e, purtroppo, prendendomi alla sprovvista, non ho saputo dire qualcosa di decente.
Mi hanno quindi intimato di uscire dalla macchina per un alcool test.
Niente di preoccupante, stavo uscendo per sottopormi a qualsiasi cosa volessero ma successe una cosa che non avevo previsto, causata da un mio errore di valutazione. Si, avevo valutato male quanto fossero strette le corde. La tipa era riuscita a liberarsi e, tolto il nastro adesivo, iniziò ad urlare come fosse pagata per farlo.
Senza farmi prendere dal panico (a detto dello sbirro) ho preso la testa del poliziotto che avevo di fronte e l'ho stampata sul cofano. Mi sono impossessato della sua pistola e dopo aver sparato a due poliziotti sono rientrato di corsa in macchina e sono partito a razzo.
“Sono morti?” chiedo.
“No, li hai solo feriti. Da quello che ricordo non sembrava che avessi intenzione di ucciderli”.
Poi mi sono venuti tutti dietro ed è stato l'inferno. Ogni tanto spuntava fuori qualche macchina nuova e l'elicottero mi stava alle calcagna, illuminandomi a giorno. Nessuno faceva economia di proiettili e questo lo dimostra anche lo stato in cui sono stati trovati i muri degli edifici lungo la strada, il giorno dopo. Guardo le foto che mi passa. Erano talmente crivellate di proiettili che se mettevi i numeri sopra ogni punto e poi li univi veniva sicuramente fuori qualcosa di interessante.
Lo sbirro continua il suo racconto e mi dice che in qualche modo sono riuscito a far ribaltare la prima macchina degli inseguitori, riuscendo a guadagnare tempo. La mia folle corsa è finita qualche km più avanti, quando mi sono infilato con la macchina in un sentiero per capre e, dopo aver percorso si e no un centinaio di metri, mi sono fermato.
“Qui non ho idea di cosa possa essere successo ma secondo la ricostruzione ecco come è andata”
Sono sceso dalla macchina, ho aperto il bagagliaio, la donna mi ha colpito e ha iniziato a correre, ma senza andare lontana. Io infatti, l'avrei raggiunta, per farla letteralmente a pezzi.
“Come sarebbe? Non le ho sparato? E poi io non sono quello che le tortura le vittime?”
“Si, è così. Ma avevi poco tempo, eravamo sulle tue tracce. No, non hai usato la pistola.
Ad essere sinceri non hai usato nessuna arma convenzionale, ti sei limitato a, come posso dire, sbranarla. Come un cane randagio”
“sb.. sbranarla?”
“si, esatto, a sbranarla.
Hai fatto a pezzi quella povera donna semplicemente con le mani e i denti”.
È troppo. Chiudo i fascicoli e li spingo via. Mi appoggio con i gomiti sul tavolo, la testa fra le mani, come a schiacciarla, gli occhi stretti in un morsa, come a cercare di risvegliarsi da un brutto sogno.
“Non posso credere di aver fatto questo, non posso”
“beh, credici, perché è quello che hai fatto”
“ma come avete fatto a prendermi?” domando.
Mi spiega che dopo aver ucciso la donna ho iniziato a correre nel bosco e mi sono fermato molto più avanti credendomi al sicuro. In breve mi sono ritrovato circondato da poliziotti e, cercando di scappare, sono inciampato chissà dove, ruzzolando giù, in discesa, fino a finire dentro un laghetto.
Chiedo che ne sarà di me, ma in cuor mio lo so già. “Andrai davanti ad un tribunale e loro decideranno cosa fare. Io la mia parte l'ho già fatta.”
E rimaniamo così, ad osservarci, per alcuni minuti. Poi lui si alza e fa per andarsene, ma prima che esca dalla stanza gli chiedo se sa qualcosa di quel segno a forma di stella che ho sulla mano sinistra.
“È un tatuaggio” mi risponde.
Gli faccio presente che ho problemi di memoria, non che sono coglione.
“So bene che è un tatuaggio, ma cosa rappresenta?”
“Non ne ho idea”. E se ne va, chiudendo la porta alle sue spalle.
Capitolo 3
processo
I giorni seguenti sono solo una perdita di tempo. Mi hanno riservato una cella personale perché sono convinti, dicono, che non ci si possa fidare di me e che potrei fare chissà cosa. In sostanza hanno paura che faccia del male agli altri detenuti o che possa tentare di evadere. Nell'ora d'aria sono sempre scortato da quattro poliziotti che mi tengono i fucili puntati contro. Gli altri detenuti non sembrano infastiditi da me, anzi, sono sicuro che più di uno vorrebbe farmi la pelle per via di quei ragazzini appena maggiorenni che ho ucciso. Purtroppo non so nemmeno se sono stato io a farlo, ma posso dire che sono d'accordo con loro. Quale malato figlio di puttana farebbe quello che ho fatto io?
Ho ascoltato le varie deposizioni, le ricostruzioni dei fatti, quello che ho fatto a quei poveracci. Come mi disse Luigi a me non bastava ucciderli, no, dovevo infierire sui loro corpi, torturarli, farli letteralmente a pezzi.
Durante il processo i vari medici e i poliziotti che hanno fatto i rilevamenti si sono dilungati spesso sullo stato in cui hanno trovato i corpi e, purtroppo, c'erano anche i parenti delle vittime, che spesso correvano fuori per andare a vomitare o perché non ne potevano più di rivivere quello che avevano passato anni addietro, leggendo le notizie sul giornale.
I vari esperti criminologi intervenuti hanno descritto nei minimi particolari tutto quello che ho fatto, dal taglio di lembi di pelle alle falangi tagliate una alla volta. Hanno detto di aver trovato anche degli strani segni sulle gambe che solo dopo hanno capito di cosa si trattava: legavo delle gabbiette sulle gambe delle vittime dove dentro mettevo un animale, in prevalenza ratti, che poco a poco mangiavano la carne della vittima. Ero dedito anche all'uso dell'elettricità, dell'acqua bollente, dei ferri roventi e di tante altre cose che non riuscivo a credere di averle davvero fatte. A metà del processo mi sono tappato le orecchie per non ascoltare. Quando mi hanno chiamato a testimoniare non sapevo cosa dire e ho riempito il banco di referti medici in cui veniva spiegata la mia amnesia, la mia incapacità di ricordare. Mi sono scusato con la corte per non poter essere di aiuto, per non avere la possibilità di spiegare loro il mio insano gesto, sempre che un motivo ci fosse. Magari sono davvero semplicemente un malato mentale che ha ucciso senza un motivo apparente.
Non lo so, non so cosa pensare.
Alla domanda come si ritiene l'imputato ho risposto semplicemente: “non so nemmeno se Matteo è il mio vero nome. Ma se quello che ho fatto è vero allora mettetemi dentro e buttate via la chiave.”
La sentenza non è chiara.
Sono colpevole ma mi riconoscono l'infermità mentale, quindi per ora vado in galera e poi si vedrà. Uscire da lì non è facile. I parenti delle vittime urlano e scagliano ogni sorta di maledizione su di me. Sono sicuro che vorrebbero vedermi impiccato o cose del genere. Come dargli torto. Quello che ho fatto non ha nome e non può essere spiegato se non additandomi a mostro.
Mentre ripenso a queste parole ecco che dalla folla radunatasi intorno a me si protrae un uomo sulla quarantina che mi salta alla gola, subito placcato dagli agenti prima che riesca a raggiungermi. La situazione adesso si è fatta insostenibile.
Posso sentire distintamente i vari odori che ci sono, dal sudore degli agenti, impegnati in una lotta furibonda per salvare un pendaglio da forca come me da un sicuro linciaggio, al profumo abbondante di quella signora grassa sulla quarantina. Inoltre c'è un odore che non riesco a capire cosa è o da chi viene ma sono sicuro di conoscerlo. Quando lo sento, infatti, il mio corpo sembra, come dire, concentrarsi e ricercarlo. Mi alzo dritto sulla schiena, gli occhi attenti e mi metto ad annusare l'aria come fossi un animale. In quel momento non ci faccio nemmeno caso, tanto sono concentrato su quello strano odore che sembra avere un potere quasi ipnotico su di me.
Le voci delle persone che ho intorno sono un accozzaglia di suoni inutili che si fanno sempre più lontane, fino a spegnersi completamente, una dopo l'altra.
Tutti stanno spostando lo sguardo su di me, che sembro avere in mente qualcosa. I miei occhi sono come spiritati e mano a mano che tutti se ne accorgono si allontanano. Gli agenti adesso mi tengono sotto tiro. Non so che faccia posso aver mai fatto ma a giudicare dalle loro espressioni non credo di assomigliare ad un dolce peluche.
Un paio di stupide donne non reggono la tensione e svengono, un uomo urla “assassino, mostro!” ed io lo guardo, come si guarda qualcosa che non desta interesse. L'unica cosa che mi interessa è quell'odore.
Gli agenti decidono di immobilizzarmi ammanettandomi, per sentirsi più al sicuro ma gli manca il coraggio, così decido di aiutarli mettendomi le manette da solo ed intanto volgo lo sguardo alla piccola folla, cercando sempre di capire da dove proviene quel cazzo di profumo.
Senza rendermene conto mi sto innervosendo, i miei muscoli si tendono e se guardo le mie mani posso vedere distintamente il sangue pulsare nelle vene.
Poi lo vedo. È li, mi sta osservando. Non so come faccio a sapere che è lui quello che stavo cercando, ma lo so. Lo guardo e lui guarda me. Ci osserviamo per un tempo che pare infinito, poi le guardie mi intimano di camminare, ma non lo faccio subito. Resto li ancora qualche secondo e prima che decida di muovermi fa in tempo a dire qualcosa. La distanza mi impedisce di sentirlo ma posso distintamente leggere le sue labbra mentre dice queste esatte parole:
“ti ucciderò”
Sorrido. Ma non è un sorriso normale, no, è un sorriso da pazzo, di quelli che prendono solo la fila dei denti di sopra e vanno da orecchio ad orecchio, con la faccia inclinata verso il basso e gli occhi aperti come a guardare la propria preda in lontananza. Sento il sangue ribollirmi dentro e le mani farmi male e forse è proprio quel dolore a farmi tornare alla realtà. Mi riprendo e guardo le mie mani, leggermente insanguinate. Senza rendermene conto le avevo chiuse a pugno e avevo stretto talmente forte da conficcarmi le unghie nella carne. È come risvegliarsi da un sogno. Intorno tutti mi guardano come fossi un fenomeno da baraccone e dietro le guardie mi spingono per portarmi fuori da li.
Ed io mi incammino, verso la mia nuova vita.
Capitolo 4
la nuova vita
La vita in prigione non è proprio il massimo, ma almeno hai parecchio tempo per riflettere. Passo i primi tre mesi a domandarmi come possa essermi venuto in mente di fare quelle cose, perché l'odore di quell'uomo mi abbia provocato quelle reazioni e cercando di capire cosa significhi quel tatuaggio che ho sulla mano, sempre che un significato ce l'abbia e non sia solo un'inutile ornamento.
Il tatuaggio. All'improvviso mi torna in mente ed inizio ad osservarlo.
Guardandolo più da vicino mi rendo conto che, prima delle punte, ci sono dei piccoli cerchietti con delle lettere dentro “H” “A” “R” “A” “K” e un cerchietto vuoto al centro.
Osservo la mia mano tenendo il pollice rivolto verso il petto. Leggendole partendo dall'alto e ruotando verso destra la frase completa è khara. Ripenso a come mi ha chiamato lo sbirro: kharal.
Cosa significa? Che vuol dire? Perché questo nome assurdo?
Ci penso fino a farmi esplodere la testa e, appena decido di smettere, ecco che un immagine mi appare nella mente, un fottuto flashback:
È notte. Davanti a me Luigi che mi guarda. Sta urlando qualcosa ma io non lo ascolto, sono troppo impegnato a guardarmi intorno e a pensare a cosa fare. Le gambe mi fanno male, ho corso troppo. Mi manca il fiato, il cuore mi sta martellando la testa TUM TUM TUM TUM intorno a me cani che abbaiano, tutti che urlano, spari, TUM TUM TUM TUM TUM TUM, in bocca uno strano sapore, lo riconosco, è sangue TUM TUM TUM guardo la pistola in mano, è scarica TUM TUM TUM lo sbirro mi urla di arrendermi e mi chiede chi sono e perché sono pieno di sangue.
TUM
lo guardo negli occhi, apro la bocca per prendere fiato e glielo dico: “il mio nome è Kharal”
poi inizio una corsa impazzita sfuggendo chissà come ai suoi proiettili TUM TUM TUM TUM TUM TUM TUM TUM il mio piede si ferma
TUM
il mondo inizia a girare intorno a me, vorticosamente TUM TUM sento l'odore della terra in bocca, il dolore su tutto il corpo TUM sto rotolando TUM sento le mie ossa scricchiolare, i miei muscoli appiattirsi su erba, sassi, piccoli tronchi TUM.
Un ultimo schianto e il freddo, pungente. Acqua TUM l'acqua mi riempe la bocca, il naso, gli occhi TUM TUM TUM non riesco a respirare, non capisco dove sono TUM TUM TUM non riesco a vedere
TUM
Ritorno alla realtà lanciando un urlo al cielo, spremendomi la testa come un limone. Mi accascio a terra, in ginocchio, gli occhi sbarrati e la bava alla bocca. Sento il mio cuore impazzire nel petto e i muscoli tendersi fino allo spasmo.
Poi è solo buio. E silenzio.
Il risveglio non è dei migliori ma non mi posso lamentare. Sono in infermeria.
Ovviamente mi hanno ammanettato al letto e da come mi sento posso benissimo capire che mi hanno strafatto di anestetico. Mentre sto pensando se lo hanno fatto perché hanno paura di me o perché ne avevo davvero bisogno ecco che si avvicina un tizio e controlla come sto.
Un paio di discorsi senza senso e poi si rivolge a me dicendo che in giornata potrò tornare in cella.
Sai che culo.
Esco da lì giusto in tempo per il pranzo. Ancora intontito mi avvio verso la mensa per trovare qualcosa con cui riempirmi lo stomaco e qui succede qualcosa di maledettamente curioso. Mentre sono in fila mi si avvicina un tizio che mi dice qualcosa a proposito di un codice della prigione, per cui chi fa male a donne o ragazzini finisce male.
Io non ricordo bene come è andata, ma quando mi rendo conto di quello che sta succedendo il tipo è sdraiato su un tavolo e sta urlando di dolore. In isolamento uno degli sbirri mi ha raccontato la scena:
Mi sono voltato verso Rudy (così si chiama) e gli ho sorriso, dicendogli che una paternale da un avanzo di galera come lui non l'accetto, dopodiché mi sono avvicinato a lui, che ha cercato di colpirmi. Se non lo avesse fatto probabilmente sarebbe andata in maniera diversa. Fatto sta che l'ho schivato, l'ho colpito un paio di volte, l'ho preso per i capelli e gli ho stampato la faccia su un tavolino. Sarebbe finita lì, ma ha pensato bene di rialzarsi e, mentre ero distratto dalle guardie che si stavano facendo largo fra gli altri detenuti, ha cercato di infilarmi una forchetta nella schiena.
Gli è andata male e gli ho spezzato il braccio, poi, per evitare che si muovesse, gli ho piantato la forchetta in un orecchio, inchiodandolo al tavolo.
Ho come la sensazione che questa me la faranno pagare cara.
Ripenso a come ho fatto a fare una cosa del genere. Mi è venuta quasi spontanea, come fossi abituato a fare certe cose. E la facilità con cui ho spezzato quel braccio, come se niente fosse. Certo, questo lo devo alle mie braccia, così forti. Ma se poi inizio a pensare che sono così perché sono uno schifoso assassino mi prende la disperazione e quindi evito di farlo.
Mi concedo una risata, quindi, ripensando a quel poveraccio che avrebbe fatto meglio a farsi gli affari suoi e chiudo gli occhi per cercare di riposare.
C'è silenzio qui.
Se la vita in carcere è strana, in isolamento è surreale.
L'unico contatto che ho con il mondo esterno sono le nuvole che vedo passare in cielo dalla finestrella in cima alla stanza. Le pareti sono imbottite, il letto è senza coperte e il bagno altro non che un buco in un angolo della stanza, coperto solo da un muretto (imbottito anche quello) che copre quanto basta.
L'unico modo che hai per passare il tempo è passeggiare in giro per stanza e parlare con la telecamera, ammesso che tu abbia qualcosa da raccontare. Io infatti posso solo raccontare quello che mi è successo negli ultimi tre mesi e, in ogni caso, oltre che non destare interesse, quello che ho da dire è decisamente inutile, visto che chi è dietro la telecamera non può sentirmi.
Una volta scontata la mia “punizione” finalmente mi fanno uscire da li.
Uscire in cortile, durante l'ora d'aria, è quanto di più bello possa immaginare. L'aria mi entra dentro a pieni polmoni, il sole mi scalda la faccia e mi acceca per qualche secondo, tempo nel quale io rimango come stregato da tanta bellezza, per poi abituarmi alla luce e tornare prepotentemente alla realtà osservando chi e cosa ho intorno.
Gli altri detenuti, mura altissime, giallognole, il rumore del traffico fuori e l'odore di selciato cotto al sole, misto a fumo di sigarette e dopobarba.
Dopo l'episodio in mensa nessuno ha provato più ad avvicinarsi a me, anche a causa della stretta sorveglianza che i poliziotti mi riservano. Sorveglianza a dir poco inutile, visto che io nemmeno so chi sono e tutto quello che faccio è frutto della mia vita precedente.
Ma ripensandoci, nemmeno io mi lascerei incustodito. Non mi lamento, perché in fondo mi piace stare da solo. Quello che non mi va giù e che non abbia nessuno con cui parlare, anche solo per scambiare due chiacchere sul tempo.
Capitolo 5
speranza
Trascorro li dentro almeno 5 anni. Anni che scorrono in un modo così lento da farmi perdere il conto dei giorni.
Giorni che ormai passo allenandomi continuamente, anche in cella. Non so perché lo faccio, ma è un ottimo modo per passare il tempo e per mantenermi in forma. Oltre a questo leggo spesso quei pochi libri che ci passano dalla “biblioteca” per evitare che mi si atrofizzi il cervello. Grazie a quest'ultima cosa e al fatto che faccio il bravo bambino mi guadagno anche una leggera fiducia da parte degli sbirri che mi tengono costantemente d'occhio.
Durante questi anni scopro chi ero e cosa facevo come persona normale anche, e soprattutto, grazie a Luigi che viene a trovarmi almeno una volta al mese, quando deve passare dal carcere per motivi suoi. Non mi vergogno ad ammettere che mi piacciono molto le sue visite. Grazie a lui, infatti, ogni volta scopro qualcosa di nuovo della mia vita precedente e sugli sviluppi del mio caso. Sembra infatti che abbiano deciso di farmi uscire, nonostante quello che ho fatto, perché dichiarato ufficialmente infermo mentale.
“Davvero pensi che qualcuno abbia intenzione di farmi uscire da qui?”
“Non lo so. Potrebbe essere. In fondo ormai non sei più un pericolo per nessuno, anzi, sei tu in pericolo.”
“Le famiglie delle vittime, eh?!”
“Esatto. Più di una persona vorrebbe vederti morto.”
“Non li posso biasimare..”
Mi informa anche che ci sono delle condizioni, in caso io venga davvero rilasciato e gli chiedo quali siano. Ogni mese devo fare almeno due sedute da uno psicologo ed eventualmente fare uso di psicofarmaci, in caso sia ritenuto necessario, ed ogni tre mesi devo sottopormi ad un esame completo, come quelli che mi hanno fatto durante il processo. Inoltre per i primi tre anni devo accontentarmi di starmene ai domiciliari.
Ci penso qualche secondo, poi mi viene in mente un particolare non del tutto trascurabile e mi rivolgo a Luigi:
“c'è solo un piccolo problema. Che io sappia non ho una casa ne qualcuno che voglia tenermi con se. Non so se ho dei genitori o dei parenti in genere ma dubito che vorranno ospitarmi. E se mai avrò degli amici sono sicuro che faranno finta di non conoscermi.”
“Ne sei sicuro?”
“Andiamo Luigi, chi vuoi che faccia dormire in casa propria qualcuno accusato di 10 omicidi premeditati che rapisce le vittime per torturarle?”
“In effetti.. Comunque di questo non devi preoccuparti. Dei parenti li hai e sono disposti a tenerti con loro. Anzi, sono stati loro a chiedere se potevano riconsiderare il tuo caso, visto che ormai sei solo un guscio vuoto.”
Continua a parlare per chissà quanto tempo, di quello che ho fatto, di quanto sia orribile e di come abbia cercato di redimermi scrivendo ai parenti delle vittime, dopo le mie scuse solenni fatte durante un'intervista. Mi parla di come io sia cambiato e di come nemmeno lui che mi ha dato la caccia per 4 anni mi riconosca più.
“Non so più se considerarti come nemico o come semplice conoscente ormai. Quello che è certo è che non sembri più in grado di far del male a qualcuno.”
Lo osservo mentre mi parla. I suoi occhi sono sinceri, ed io mi sento ancora più in colpa ripensando a quello che ho fatto e a quanto l'ho fatto soffrire uccidendo quelle persone mentre mi dava la caccia.
Poi si alza e fa per andarsene, anche per questo mese la mia “pausa dialogo” è finita. Prima di andarsene però, si volta, e mi dice che anche lui ha appoggiato la richiesta di scarcerazione. Rimango perplesso per alcuni secondi e poi gli chiedo perché.
“sai, da quando ti ho catturato le giornate sono così noiose.. preferisco saperti a piede libero, almeno ho qualcosa per cui preoccuparmi”. Poi sorride, mi fa l'occhiolino ed esce dalla stanza.
Io rimango lì per altri due minuti, in cui il mio unico pensiero è rivolto alle sue parole. Poi inizio a ridere come se mi avessero raccontato una barzelletta, fino a quando non vengono a prendermi per riportarmi in cella, ad attendere la risposta della richiesta di scarcerazione.
Capitolo 6
un nuovo giorno
Indosso i pantaloni nuovi e la maglietta che mi hanno portato in questi giorni i miei “parenti”.
Infilo gli stivali neri e sistemo i capelli. Sono emozionato.
I secondini aprono la cella e mi portano a sbrigare delle piccole formalità, prima di accompagnarmi all'uscita.
I pesanti cancelli si aprono davanti a me, con un suono metallico e stridulo.
Il sole mi batte in faccia con prepotenza e osservo quel mondo che fino ad ora mi era nascosto. Guardo le macchine passare, gli alberi, le case intorno e mi sembra tutto così nuovo, diverso e bellissimo. Un cane mi passa vicino, scodinzolando.
Vedo li vicino una macchina parcheggiata in seconda fila con davanti una persona che mi osserva. Alzo la mano e lui ricambia, quindi mi avvicino sicuro che stia aspettando me. Si presenta, poche parole. Scopro di trovarmi di fronte a mio zio.
Ci sono mille domande che vorrei fargli ma adesso l'unica cosa che voglio è allontanarmi da quel posto e lasciarmi tutto alle spalle. Monto in macchina e quando partiamo sorrido. Finalmente ha inizio la mia vita. La mia nuova vita da persona libera.
Mentre viaggiamo mi guardo intorno, per me tutto è nuovo, in questa città. Non so nemmeno se sono nato qui o da un altra parte.
Dopo qualche minuto di silenzio che io ho passato guardando fuori dal finestrino, scrutando ogni cosa, che ai miei occhi appare così bella nella sua semplicità, mio zio rompe il silenzio chiedendomi come si sta in carcere.
Io mi volto, lo guardo alcuni secondi e poi mi stringo sulle spalle “il caffè non lo sanno fare”.
Mio zio rimane inizialmente perplesso, poi sorride e mi chiede se quello che dicono i giornali è vero, se davvero ho perso la memoria e non ricordo niente della mia vita precedente.
“cosa mi rispondi se ti dico che non ho nemmeno idea di chi sia tu?”.
Mi guarda.
“chissà.. forse è meglio così”.
Gli chiedo cosa significa questa risposta ma ottengo solo un “niente, non preoccuparti”.
Poi riprende a parlare dando una risposta a delle domande che non osavo fare. Mi spiega che hanno richiesto la mia scarcerazione solo perché mi conoscono bene e sanno che non farei mai del male a qualcuno della mia famiglia e perché è in grado di darmi un lavoro, cosa che nessuno farebbe mai, con un ex detenuto ai domiciliari, accusato di omicidio plurimo, premeditato, con aggravanti di percorso (o qualcosa del genere).
Non appena smette di parlare mi volto per guardare fuori, appoggiandomi al sedile. Mentre tutto scorre, la fuori, penso a come sarà la mia nuova vita. Ringrazio mio zio e chiudo gli occhi, cercando di reprimere quel senso di colpa che non riesco a togliermi di dosso, per aver fatto del male a delle persone innocenti. E resto così, per tutto il viaggio.
Arriviamo a destinazione che ancora il giorno non è finito. Scendo dalla macchina e mi viene incontro un piccolo cane.
“non c'è nessuno?” domando.
“no, sono tutti a lavoro. Vieni, ti faccio vedere dove puoi stare”.
Mi accompagna in una dependance, collocata subito accanto alla casa principale e ricavata da una costruzione che c'era prima. La casa è una colonica molto bella, di quelle che usano ancora nelle campagne e da questo capisco subito in cosa consisterà il mio lavoro. Mio zio infatti ha un azienda di famiglia, che produce olio e olivi e il mio compito sarà quello di aiutarlo nei campi.
Entro in quella che sarà la mia nuova casa. L'impressione che ho entrando è piacevole. La casetta è molto accogliente. Il salotto è di colore chiaro, con un divanetto a due posti. C'è una piccola televisione, di tutto rispetto, collocata in mezzo ad un mobiletto marroncino, di quelli che è possibile riempire di cose. Accanto c'è una porta da cui si accede nella cucina e di sopra una camera con bagno.
“questa sarà la tua nuova casa” mi dice.
“mi piace” rispondo.
E poi continua dicendomi che nelle condizioni per essere “libero” c'è anche da aggiungere che ogni sera lui deve chiudermi dentro. Roba da giudici. Gli dico che non c'è nessun problema e che, per quanto possibile, cercherò di dare fastidio meno possibile.
“nessun fastidio, non preoccuparti”.
Quelle parole risuonano nella mia testa come una voce di speranza e danno sollievo alla mia anima.
Dopodiché mi invita a sistemare i bagagli e a riposare, con la promessa di tornare più tardi, dopo aver sbrigato delle commissioni, per presentarmi il resto della famiglia.
L'unico bagaglio che ho è un giacchetto comprato quando ero in carcere. Lo butto sopra al divano e mi avvio verso la cucina, per prepararmi un caffè.
Mentre lo bevo mi accendo una sigaretta e cerco di abituarmi a tutto questo. Dopo 5 anni passati in carcere ritrovarsi in un posto così grande, silenzioso e senza nessuno a cui obbedire ti fa sentire spaesato e un po fuori posto.
Accendo la tv e aspetto il ritorno di quell'uomo che dice di essere mio zio, ma di cui io non riesco nemmeno a ricordare il nome.
C'è silenzio qui, ma qualcosa mi urla dentro, impedendomi di rilassare il mio corpo stanco e la mia mente, tormentata da mille pensieri.
Faccio quindi una cosa che volevo fare da molto tempo. Prendo una seggiola dal soggiorno e vado fuori, sistemandomi al sole. Il piccolo cane mi si avvicina e rimane a farmi compagnia, dopo aver ricevuto in cambio un piccolo compenso un paio di carezze.
Inizia la mia nuova vita.
Capitolo 7
La cena
A cena l'atmosfera non è delle migliori.
Intorno a me persone che dicono di essere miei parenti ma che io vedo e conosco per la prima volta.
Stranamente non hanno paura di me e, anzi, fanno di tutto per mettermi a mio agio constatando probabilmente quanto sia in imbarazzo in mezzo a loro.
Mi parlano, evidenziando quanto sia cresciuto, quanto sia cambiato, dall'ultima volta che mi hanno visto e dopo aver parlato a lungo di cose pressappoco inutili domando loro chi sia la mia famiglia.
“siamo noi la tua famiglia” mi risponde mio zio.
“no, intendo dire: chi sono i miei genitori? Dove sono? Ho fratelli o sorelle?”
E capisco dai loro sguardi che sono delle domande a cui nessuno vuol dare risposta. Tutti infatti si guardano negli occhi. Adesso c'è solo silenzio e i sorrisi si sono fatti da parte per serrare quelle labbra che sembrano voler dire mille cose ed invece se ne restano chiuse, come una diga, ad impedire che un fiume impetuoso possa trovare spazio per la sua corsa inarrestabile.
La più giovane si rivolge a me:
“davvero non ti ricordi niente'”
“no” rispondo io.
“nemmeno le cicatrici che porti sul corpo ti dicono niente?”
“no, mi dispiace. Tu ne sai qualcosa?”
Ma è una domanda a cui non potrà mai rispondere perché mio zio prende la parola, facendo presente che domattina dovremo alzarci presto, per andare al lavoro, ed invita tutti a finire di mangiare e ad andare a letto. Poi si rivolge a me, dicendomi che tutto mi verrà raccontato piano piano, per cercare di aiutare la mia mente a ricordare senza subire danni.
“ok” dico io. E poi mi rivolgo a tutti scusandomi per aver tirato fuori argomenti di cui, a quanto pare, è meglio non parlare.
“purtroppo non ricordo niente e la mia sete di sapere è solo indirizzata verso una conoscenza della mia vita precedente, per cercare di capire come mai possa essere diventato un mostro come quello che ero, se possa esserci un nesso fra le due cose e..”
Non faccio tempo a completare la frase che mio zio prende la parola:
“calmati Matteo. Nessuno sta puntando il dito contro di te. Sappiamo quello che hai fatto ma abbiamo capito che si trattava di un altra persona, che non ha niente a che vedere con quella che abbiamo di fronte adesso. Abbiamo deciso di aiutarti ed è quello che faremo. Abbiamo preso questa decisione e ti aiuteremo finché possiamo, nei limiti delle nostre possibilità.”
E dopo queste parole non c'è più niente da dire. Ringrazio tutti e chiedo il permesso di andare a dormire (vecchia abitudine da galeotto) e mi avvio verso la mia nuova casa.
Mio zio non viene subito a chiudermi dentro. Credo si fidi di me e non ho intenzione di dimostrargli che si sbaglia.
Esco a fumare una sigaretta prima di andare a dormire e ad osservare il cielo, rimanendo abbagliato da tanta bellezza. Mi sdraio in terra, a scrutare quel meraviglioso manto stellato, a respirare la fresca aria della sera che profuma di erba e ad ascoltare il rumore degli alberi che si muovono, leggeri, sospinti da un venticello che sembra portale sollievo a quella terra ancora calda del sole cocente di quel pomeriggio appena trascorso.
Finita la sigaretta mi avvio verso la mia stanza e provo l'ebrezza di dormire in un letto vero, con delle coperte pulite e comode.
La bocca mi si inarca in un sorriso e mi addormento così, pensando alla bontà di mio zio che è riuscito a dare fiducia anche ad un uomo come me.
Capitolo 8
vivere normalmente
Ed ecco qua la mia nuova vita. Tutte le mattine mi sveglio di buon'ora per andare nei campi a compiere lavoretti di bassa manovalanza come pulire i fossi, estirpare le erbacce, curare le piante togliendo rami secchi o inutili e ogni tanto mi concedo una pausa andando a pescare nel laghetto che rimane in fondo ai campi.
Adoro questa vita. Adoro sentire il sole scaldarmi ogni parte del mio corpo, portare gli occhiali da sole e passeggiare fra gli olivi, toccandoli ogni tanto per assicurarmi che non siano un miraggio. Mi piace sentire l'odore di terra umida e l'erba appiattirsi sotto le scarpe, il cinguettio degli uccelli, il vento in faccia, il rumore che fa il trattore e l'abbaiare del cane quando arriva il tizio che porta il pane.
Mi è capitato anche di parlarci. Ricordo che vedendomi per la prima volta mi chiese chi fossi.
Gli dissi la verità: sono un pluriomicida, quello che qualche anno fa è finito in televisione. Sa, quello che non ricorda niente.
Ricordo ancora la sua faccia pallida quando mi ha riconosciuto e la velocità con cui è scappato da me.
C'è di buono che non gli avevo ancora pagato il pane.
Mio zio pare felice di avermi lì con lui e gli altri lavoratori non sembrano infastiditi. Questo è piacevole, per me.
A volte parlo con loro e, per il resto del tempo, mi dedico esclusivamente al lavoro, senza risparmiarmi. Le colpe che devo scontare sono tante e a volte mi illudo di riuscirci lavorando sodo e comportandomi bene.
Forse questo non mi renderà migliore di fronte all'altissimo, ma almeno posso sperare di riuscire ad entrare in un bar senza che qualcuno mi riconosca provocando un fuggi fuggi generale.
E così procede la mia vita, per altri 2 anni, nei quali rimango sempre lo stesso smemorato, come evidenziato anche da quelle fottute analisi a cui mi sottopongono quei medici da quattro soldi periodicamente e senza sgarrare di un solo giorno.
Non sopporto più di andare a ripetere sempre le stesse cose e di sentirmi dire le solite parole ogni volta. Con mio zio non abbiamo più toccato l'argomento famiglia perché pare che debba prima aspettare di ricordare alcune cose da solo, o la mia mente potrebbe avere uno shock.
Stronzate per non dirmi la verità. Ma non posso biasimarlo. Fino ad ora si è rivelato una persona di buon cuore e voglio avere fiducia in lui.
C'è di buono che non sono più ai domiciliari. Rimangono tutte le altre limitazioni, tra cui quella di non poter disporre di passaporto e di non poter lasciare il paese, ma a me va bene così. Adesso posso permettermi di andare a passeggio in strada e questo mi rende molto felice.
Anche oggi è una giornata come le altre. Mi sveglio presto, bevo il mio caffè e poi mi dirigo nei campi, dove gli altri arriveranno solo fra qualche minuto, in tempo per usare il trattore, che mi preoccupo di accendere per scaldare il motore.
La giornata trascorre senza problemi e alle prime avvisaglie della sera ci preoccupiamo di rimettere tutto in ordine per andare ognuno a casa propria.
Dalla prima sera in casa di mio zio ho deciso che avrei fatto meglio, almeno per i primi tempi, a cucinarmi qualcosa da solo, anche per riabituarmi all'idea di poter mangiare con qualcuno accanto senza avere il timore che cerchi di pugnalarti mentre sei distratto. Oltre a questo c'è da sommare anche l'imbarazzo che provo nel cenare insieme a loro.
Mio zio ha capito e mi lascia mangiare nella casetta che ha allestito per me, senza serbarmi rancore. Anzi è che spesso mi trovo a passare del tempo con la figlia più piccola, Alessia. A quanto pare non ha timore nello stare con me e spesso mi accompagna a pescare. La più grande, Marica, sembra invece più restia nel concedermi confidenze, ma non posso dire che mi odi.
Sembra semplicemente imbarazzata a parlare con me e credo di capire il motivo. Vorrebbe parlarmi del mio passato, raccontarmi ogni cosa, ma sa che non può farlo e quindi preferisce non parlarmi, piuttosto che raccontarmi bugie o far finta di niente.
La sera, come ormai sto facendo già da tempo, esco senza nemmeno più preoccuparmi se le persone mi notano o meno. Sanno benissimo chi sono e si sono quasi abituati a vedermi ogni sera a camminare per le vie del centro.
Certo è che nessuno si azzarda a venirmi a parlare o a camminare da solo quando io sono nei paraggi, ma in fin dei conti nessuno mi infastidisce e io non ho dato modo di farmi odiare, più di quanto non lo sia già.
Finito il giro mi dirigo nell'unico pub dove posso entrare senza che tutti controllino ogni mia mossa e bevo la mia birra di fine giornata. Ricordo che quando ci sono venuto per la prima volta l'aria che si respirava qua dentro non era delle migliori ed era frequentato da spacciatori e gentaglia del genere. Era il luogo ideale per uno come me.
Adesso , con la nuova gestione, tutto è cambiato. Il nuovo proprietario ha pensato bene di dare una ripulita ai cessi e al locale in generale. Adesso può permettersi di chiamarli bagni e il locale mette musica carina, oltre a presentarsi meglio. Ha sistemato le luci, cambiato i biliardi e messo dei giochi in scatola.
Il balcone è sempre lo stesso pezzo di legno marcio ma almeno lo ha sistemato tinteggiandolo.
Sembra davvero nuovo. Anche io ho dato una mano per farlo tornare ai suoi antichi splendori un po' perché mi fa piacere darmi da fare, un po' perché odio sguazzare nella melma. Ricordo di avergli anche consigliato di sistemare un piccolo palco dove far suonare band di ragazzi in cerca di un ingaggio e, chissà perché, mi ha dato retta. Adesso il pub ha periodicamente musica dal vivo e questo non può che attirare più clienti. Mi aveva proposto di lavorare per lui, ma dopo avergli spiegato chi sono e le regole a cui devo sottostare ha convenuto con me che non sono la persona adatta a lavorare in un pub.
Stasera è occupato a servire dei ragazzini e io sono troppo stanco anche per parlare. La giornata è stata pesante e tutte le notti le passo a rigirarmi nel letto, tormentato da chissà quali incubi che la mattina non riesco a ricordarmi. Può darsi che siano stralci della mia vita precedente, che il mio cervello si rifiuta di assimilare perché sa cosa succederebbe se liberasse i fantasmi del passato o forse se lo immagina.
Tutti mi ripetono che va bene così, che è meglio che non ricordi, ma io voglio sapere. Voglio capire come mai ero, anzi, sono un mostro che uccide persone senza motivo, cosa ha scatenato in me questa cosa e se tutto ciò aveva un senso.
Mentre sono appoggiato al bancone impegnato a farmi venire il mal di testa si siede accanto a me una ragazza, che ordina tre cocktail e poi si volta verso di me. A mia volta indirizzo lo sguardo verso di lei e con mia grande sorpresa scopro di trovarmi davanti alla bella infermiera dell'ospedale: Silvia.
Mi sorride e agita la mano per salutare, nonostante siamo così vicini da poter parlare sottovoce. Sorrido a mia volta e ricambio il saluto con un breve cenno del capo.
Chiede come sto e senza nemmeno darmi il tempo di rispondere mi invita al suo tavolo. Io la guardo perplesso.
“non ricordi chi sono?”
“certo che lo ricordo. Sei tu che non ricordi chi sei” mi risponde.
E sorride, con quel sorriso dolce che per un momento dà sollievo alla mia anima tormentata. I suoi occhi sono bellissimi. Sono quel tipo di occhi grandi, vispi che hanno spesso le ragazze allegre. Per non parlare, poi, del suo fisico. Che gran pezzo di donna.
Mi fa cenno di seguirla. Scendo dallo sgabello e la seguo, portandomi dietro il boccale di birra. Mi invita a sedermi al tavolo e mi presenta i suoi amici. Una coppia di giovani da poco tornati da un viaggio in Inghilterra. Sono suoi amici e sono venuti qua a festeggiare il loro rientro con una bevuta.
Sto ancora cercando di capire come mai mi abbia invitato al tavolo, mentre lei mi presenta ai suoi amici e spiega loro in parole povere chi sono. Inizialmente li vedo cambiare espressione ma non colgo lo sdegno tipico di chi, solitamente, mi riconosce.
“è grazie a lui se il pub è migliorato” e poi si rivolge verso di me, fissandomi con i suoi occhioni chiari “io e mio padre non ti ringrazieremo mai abbastanza”.
Ecco svelato il mistero. È la figlia del barista. E io che mi credevo chissà cosa.
Rimaniamo buona parte della serata a parlare. Adoro farmi raccontare del loro viaggio in Inghilterra. Non so se ci sono mai stato ma starli a sentire, immaginando i posti che mi descrivono, è una bella sensazione.
Verso mezzanotte decido che è ora di tornare. Saluto tutti e mi avvio verso casa per riposare.
È stata una bella serata.
L'indomani mi sveglio fresco e riposato, segno che durante la notte sono riuscito a dormire senza che gli incubi me lo impedissero. Oggi è domenica, quindi non si lavora.
Passo buon parte della giornata in giro per il paese a osservare le bancarelle e a camminare in mezzo alla gente, che sembra non fare caso a me, tanta è la confusione nella piazza grande.
C'è un gran via vai di persone che passeggiano, bancarelle di ogni tipo con dietro commercianti che urlano di avere i prodotti migliori ai prezzi più bassi e
“OUCH!” un ragazzo mi atterra fra le braccia e subito dietro arriva una cascata d'acqua, probabilmente destinata a lui.
Il ragazzo è fradicio ed io con lui. Alzo lo sguardo e vedo un ragazzino con un secchio in mano che non riesce a parlare.
“hey, non preoccuparti, non è successo niente” gli dico, prima che cada a terra svenuto. Poi comincio a ridere e loro con me. Una piccola folla si raduna intorno e le risate si propagano per la piazza. Aiuto il ragazzo a rialzarsi e gli sussurro qualcosa all'orecchio.
“ok” mi dice. Ed insieme prendiamo di peso l'altro ragazzino.
“uno!”
“due!”
“TRE!”
ed il tonfo secco, nell'acqua della fontana in mezzo alla piazza. Il bambino mi guarda e ride sguaiatamente. Il suo amico si rialza e osserva i suoi vestiti completamente bagnati. Mi guarda ed esclama ”ora tocca a te!”. Rimango perplesso sul da farsi e prima che possa decidere come comportarmi mi rendo conto che è meglio andarsene. Qualcuno mi ha riconosciuto e la voce si sta diffondendo nella piazza. Posso sentire i mormorii delle persone intorno a me. Le risate si spengono poco a poco fino a scomparire e lasciare spazio solo al rumore del mercato in sottofondo e agli sguardi delle persone intorno a me.
“scusate ragazzi, il gioco è finito”
e mi avvio verso casa.
Dopo aver cenato mi metto a guardare un po di tv e, come tutte le sere, non c'è niente di interessante.
Ma non ho voglia di andare a dormire subito, così metto sul canale satellitare per guardarmi qualche soap opera o cose del genere.
Mi addormento quasi subito, più o meno alla seconda pubblicità.
Spesso faccio dei sogni e sono sempre più o meno gli stessi, ma stasera sogno qualcosa di diverso.
Sono in mare. Sento chiaramente il salmastro entrarmi nella gola e vedo l'acqua intorno a me. Ma c'è qualcosa che non va, non riesco a respirare. L'acqua mi sovrasta e vedo il mondo blu chiaro, con la luce che filtra dall'alto.
Sento i miei polmoni scoppiare e dalla mia bocca non entra aria..
aria..
ARIA!
Mi sveglio di soprassalto e mi rendo contro che qualcuno mi sta premendo qualcosa sulla faccia, del cotone imbevuto di qualcosa. L'odore è penetrante. Lo colpisco d'istinto alle costole con un pugno e riesco a liberarmi la faccia.
Respiro a pieni polmoni, pesantemente, come dopo una folle corsa. Il mio assassino si rialza, mi colpisce e mi si lancia addosso. Lo colpisco con un calcio ad una gamba e faccio in modo che atterri sulla vetrata del mobiletto della tv.
Devo ancora riprendere fiato, non riesco nemmeno a gridare aiuto. Lo guardo cercando di capire chi sia ma ha un passamontagna. Addosso non ha niente che possa aiutarmi a riconoscerlo. È vestito di nero, con dei jeans grigio scuri e un paio di guanti di pelle nera.
Intanto lui si rialza, borbotta qualcosa e si guarda intorno freneticamente.
Invece di saltarmi addosso torna indietro e prende una sedia, scagliandosi subito dopo contro di me, che do un calcio al poggiapiedi e riesco a fargli perdere l'equilibrio.
Cerco di approfittare della situazione e gli salto addosso, cercando di placcarlo stile rugby, ma faccio male i miei conti e ottengo solo di ricevere la sedia sulla schiena. Si dirige verso la cucina, forse intenzionato a cercare un'arma, ed infatti torna con l'unica cosa che può trovare nella casa di un ex serial killer: il coltello da pane.
Cerco di trattenermi dal ridere e fingo di essere svenuto. Appena si avvicina, intenzionato forse a dirmi qualcosa, lo colpisco alla gola dopo avergli immobilizzato il braccio con cui tiene “l'arma”. Lui indietreggia, visibilmente affaticato a respirare e dolorante. Io, mezzo intontito dal colpo appena ricevuto, cerco di rialzarmi mentre lui cerca di scappare.
Inizia così una folle corsa fuori dalla casa.
“un momento..” penso. “la porta è aperta?”
Ma non ho tempo per domandarmi cosa sia successo.
Piano piano tutti e due ci riprendiamo quasi completamente e la nostra corsa si fa sempre più frenetica, su per i colli, in mezzo agli olivi.
Posso sentire chiaramente il respiro del mio assassino mentre scappa da me, l'erba bagnata sotto i piedi e le gocce d'acqua sulle foglie che mi bagnano quando ci passo vicino. La notte è chiara ma senza luna. È difficile riuscire a vedere dove stiamo andando e spesso ci graffiamo strusciando addosso ai rami. I miei piedi affondano nelle terra umida e questo mi impedisce di raggiungere il mio aggressore. Riesce a distanziarmi di qualche metro, ma non abbastanza per invogliarmi a cedere.
La nostra folle corsa continua per diverse centinaia di metri, fino a quando le gambe non richiedono il giusto contributo di stanchezza. È visibilmente affaticato e questo mi permette di guadagnare qualche metro, ma è ancora troppo lontano perché possa prenderlo.
Con un ultimo sforzo riesco a lanciarmi verso di lui e a buttarlo a terra, prendendolo per le gambe.
Il sudore mi scende dalla fronte e respiro rumorosamente. Il mio aggressore è a terra, non credo possa riuscire a rialzarsi.
Anche lui è visibilmente affaticato ed il passamontagna non giova alla sua respirazione. Gattono verso di lui e lo volto verso di me, prendendolo per il colletto.
Gli strappo via quella sottospecie di maschera e con mia grande sorpresa riconosco in lui una persona che mai mi sarei aspettato di trovarmi davanti: Luigi.
Lo guardo sorpreso ed un po' sconvolto. Vorrei fargli mille domande ma la prima è senz'altro:
“perch...”
Non riesco a finire la parola che qualcosa, o qualcuno, mi colpisce alla testa. È un colpo duro, potente, tanto da farmi perdere i sensi.
Riprovo così qualcosa che ormai non sentivo da tempo, perdendomi nel buio.
Capitolo 9
l'inizio di un incubo
Sono confuso, stordito. Ma soprattutto sono legato ad una sedia.
Non riesco a mettere bene a fuoco le immagini o a capire bene quello che sta dicendo la persona che ho davanti. Apro la bocca per dire qualcosa, ma a quanto pare sbaglio le parole. Lo vedo trafficare per la stanza e tornare con del ferro arrotolato. No, non è ferro, è filo spinato. Lo avvolge intorno alle gambe e mi toglie le scarpe, per poi bagnarmi i piedi con dell'acqua. Non capisco il perché di tutto questo ma posso dire con assoluta certezza che le punte del filo spinato fanno un male cane. Le sento mentre premono sulle mie gambe, quel tanto che basta per sentire male.
Lo vedo allontanarsi per poi tornare con dei cavi da batteria. Mi dice qualcosa e poi attacca i morsetti ai miei alluci. Fa un male cane e non riesco a trattenere una smorfia di dolore.
Si allontana di nuovo e, arrivato al tavolo si volta a fissarmi. Collega uno dei due cavi ad una batteria e continua a fissarmi. Credo di capire cosa ha in mente e so già che non mi piacerà. Cerco di parlare ma riesco solo ad emettere qualche lamento. Lui mi fissa, continuando a chiedermi le solite cose, il solito ritornello “perché”, “perché” “perché”, “chi è stato” “ dove sono”.
Magari sapessi di cosa sta parlando.
Provo a rispondergli ma l'unico suono che esce dalla mia bocca è un rantolo più o meno udibile. Non riesco a parlare, sono intontito, probabilmente sono stato drogato. Ho i muscoli indolenziti e sento distintamente il sapore del sangue in bocca.
Lo vedo prendere in mano l'altro cavetto. Provo un ultima volta a parlare ma
“AAAH!”
prima che riesca a farlo una scarica elettrica mi passa dentro il corpo, costringendo ogni mio muscolo a contorcersi e a dimenarsi. Sobbalzo, il filo spinato penetra nelle gambe e il dolore si fa insopportabile. Toglie uno dei cavetti e di colpo il dolore sparisce, per poi ritornare immediatamente non appena ricollega i cavi.
“AAAAH!”
è qualcosa di così doloroso da non poter essere spiegato. Le punte del filo spinato sono penetrate nella carne ed ogni volta che ricollega i cavi è come se qualcuno mi stesse folgorando da dentro il corpo.
Dopo la quarta scarica inizio ad avere le convulsioni.
Il dolore è così insopportabile che non riesco nemmeno a trattenere le lacrime, che sgorgano copiose dai miei occhi. I denti stretti in una specie di sorriso macabro e le mani che tentano, invano, di liberarsi da quelle maledette corde. Nemmeno la sedia riesce più a trattenersi a terra e sussulta insieme a me ogni volta.
Finalmente è finita.
Cerco con tutte le forze di rimanere abbastanza lucido da capire quello che succede e, alzando lo sguardo, vedo mia madre che mi sorride.
“mamma?!” penso. Poi mi rendo conto di non essere più legato alla sedia e faccio per seguirla. Esce dalla stanza svoltando a destra ed io, senza sapere perché esco ma vado verso sinistra. Mi volto a guardarla e la vedo allontanarsi fino a diventare solo un'immagine sfocata.
Cammino lungo un corridoio umido, con molta luce. Una luce fastidiosa, abbagliante. Sento delle voci intorno a me. Qualcuno urla. Mi volto di scatto e vedo delle persone venirmi incontro. Inizio a correre per non farmi prendere.
Corro, fino a sentirmi male. Salto un cancello finendo dentro ad un giardino, mi arrampico sul portico e salgo fino al tetto, per poi scendere dalla parte opposta e saltare sul tetto dei vicini. Continuo a correre e mi lancio dentro una piscina, nuotando da parte a parte. Esco e ricomincio a correre fino ad arrivare in strada e proseguire verso quella enorme casa bianca in fondo alla città. Ho caldo e non riesco a muovermi bene. Sono impacciato. Arrivo dentro ad una stanza e vedo uno degli inseguitori puntare un fucile contro mio fratello.
L'uomo mi guarda, sorride malignamente e parla a mezza bocca, dicendomi “la birra si ricava dal malto d'orzo”.
Apro gli occhi, sgranandoli il più possibile, il respiro è affannoso.
Mi occorrono alcuni secondi per capire cosa è successo. La testa mi fa un male cane e mi fischiano le orecchie. Abbasso lo sguardo e scopro di essere legato ad una sedia, intorno a me dei muri senza intonaco, neri, pieni di ragnatele.
Appena gli occhi si abituano alla penombra mi rendo conto che sono in una casa abbandonata o in un garage di una qualche casa tenuta male. C'è polvere nell'aria, la sento entrare nei polmoni. E un odore di vecchiume, di legno umido e marcio.
Il pavimento è a mattonelline rosse, che si intravedono appena sotto il marciume nero che ricopre tutto.
“ma che cazz” dico a me stesso, evidenziando non poco stupore nel trovarmi in questa situazione.
Le domande principali a cui sto cercando di dare risposta sono semplici:
dove sono, perché sono lì e chi ci ha portato.
Ma soprattutto vorrei sapere perché Luigi ha cercato di uccidermi. Probabilmente mi ha portato qui con l'aiuto del suo complice, quello che mi ha tramortito.
Oppure, con la sfiga che ho, sono stato colpito dal ramo marcio di un olivo e lui mi ha trascinato qua da solo.
Scuoto la testa cercando di riprendermi. Mi fa un male cane.
Quello che mi da più fastidio di ogni altra cosa è il fatto di essere legato come un salame e di non potermi muovere. Ne avrei bisogno. Per fortuna riesco almeno ad allungare le gambe.
Il silenzio è innaturale. Non un rumore, niente. Probabilmente è giorno, altrimenti credo proprio che sentirei almeno zampettare dei topi. È il loro ambiente ideale.
Mi muovo in tutti i modi possibili, per cercare di liberarmi o, quantomeno, di provarci, ma ottengo solo di stancarmi.
L'unico cosa che posso fare, quindi, è aspettare quel figlio di puttana di Luigi e sentire cosa gli passa per la testa, a lui e a quello stronzo del suo amichetto che mi ha colpito alle spalle.
Devo comunque ricordarmi di ringraziarlo. Quella botta in testa è stato un toccasana. Ha mosso qualche rotella e gli ingranaggi hanno ripreso a funzionare. Sto iniziando a ricordare qualcosa.
Mentre cerco di mettere in ordine quel poco che mi ritorna in mente sgrano gli occhi, fissando il vuoto davanti a me e, senza che me ne renda conto, la bocca mi si inarca in un macabro sorriso.
Capitolo 10
verità
Sento dei rumori. Qualcuno sta camminando fuori dalla stanza.
Sento anche delle voci, ma in un modo che risultano solo dei suoni incomprensibili.
Come se qualcuno mugugnasse.
Ripensando a quello che è successo un dubbio si fa strada nella mia testa:
perché Luigi ha cercato di uccidermi?
Ma soprattutto:
perché mi ha rapito, portato in una casa abbandonata e legato come un salame?
Che ci sia qualche legame fra lui e una delle persone che ho ammazzato?
Se è così sono fottuto, immagino.
Mentre penso ai possibili motivi per cui mi trovo qui ecco che i chiavistelli della porta di muovono, aprendosi uno alla volta, lentamente. Il primo ad entrare è un uomo sulla quarantina (forse anche cinquantina). Ha una faccia che non mi dice niente, se non che ce l'ha con me.
Il secondo è quel figlio di buona donna di Luigi. Mi concentro su di lui, fissandolo.
“luigi..” lo saluto chinando la testa di lato.
Non c'è bisogno di chiedere niente, perché sarebbe stupido. Mi limito ad osservarlo e aspetto che parli.
“allora Matteo.. come stai?” mi chiede.
“mi prendi per il culo?” gli rispondo.
La nostra è una conversazione pacata, come se fossimo due vecchi amici che si ritrovano al bar.
Luigi riprende a parlare:
“no amico mio, non ti prendo per il culo. Era solo una domanda per rompere il ghiaccio. Sai, ci sono voluti anni, ma alla fine c'ero quasi riuscito. Ancora pochi secondi e tu saresti diventato un freddo cadavere. La tua pratica sarebbe stata liquidata in fretta come “arresto cardiaco” e tutti i problemi sarebbe finiti. Ed invece eccoti qua. Se sono vivo è solo grazie a mio fratello Lidio che ha provveduto a colpirti facendoti svenire. Avrei preferito ucciderti lì, ma ho preferito cambiare i piani e portarti quassù. Sai dove siamo?
Nel tuo covo. Nel luogo dove tu portavi le vittime e ti divertivi a torturarle. È stato qui che abbiamo trovato i primi cinque cadaveri. Ma tu, nel frattempo, avevi già cambiato posto. Sai, per certi versi sei stato furbo.”
Smette di parlare, voltandosi verso di me che sto ridendo. Alzo lo sguardo.
“Luigi. Io non ho idea del perché sono qui, ma rido di te e di questo idiota che hai accanto. Rido di questo posto, di cui non ho ricordi e ti chiedo, anzi, ti imploro di farla finita in fretta, dicendomi perché sono qui e sparandomi in faccia il prima possibile.
Niente di personale, solo sei incredibilmente noioso”
C'è un attimo di silenzio in cui Luigi sorride abbassando lo sguardo. Poi si avvicina, prendendo una seggiola e posizionandola di fronte a me. Si siede.
“Vedi Matteo, il fatto che tu non ricordi niente di quello che è successo prima del tuo arresto è positivo, perché ci risolve un sacco di problemi, ma è altrettanto un problema perché tu, e solo tu, sai quello che io vorrei sapere.
Ma andiamo con calma. Visto che non ricordi niente, cercherò di rinfrescarti la memoria partendo dall'inizio.
Devi sapere che quando eri un ragazzino alcune persone hanno rapinato una banca dove lavorava tua padre e fin qui, diciamo, non c'è niente di strano. Devi sapere, però, che in quella rapina tuo padre
TUM
e tuo fratello più grande
TUM TUM TUM
sono morti, colpiti per errore da una raffica di mitra di uno di questi uomini”
Ascolto Luigi con attenzione, mentre la vista mi si offusca, poi un lampo e la testa mi cade all'indietro, gli occhi rigirati a mostrare solo la parte biancastra.
È mattina.
La mamma va a svegliare il bambino, che ancora ronfa beatamente sotto le coperte. Giuseppe è già in piedi. Mentre il bambino scende le scale lui ha appena finito di fare colazione e si avvia a lavoro, salutando la moglie e il suo piccolo. Esce di casa, seguito dal figlio più grande.
Montano in macchina e partono per andare chi a scuola, chi a lavoro.
Il bambino fa colazione con tutta calma. La madre lo porterà a scuola non appena avrà finito.
Marco scende di macchina e si incammina su per le scale, entra in classe e si siede. Il suo giorno inizia esattamente uguale agli altri.
Il padre, intanto, si dirige verso il luogo di lavoro. È un direttore di banca. Anche per lui la giornata non ha niente di speciale.
Il piccolo Matteo ha finito di fare colazione e si avvia con la madre a scuola. Ha dieci anni.
Una volta che è sceso di macchina la madre torna a casa per fare le faccende e, più tardi, andrà a lavorare. È una designer per giardini.
Questa giornata non ha niente di speciale per nessuno di loro. È una giornata come tante altre e il sole splende nel cielo.
A metà mattinata Giuseppe è già stanco e non vede l'ora che la settimana finisca per portare i propri figli al mare. Queste giornate sono troppo calde per passarle in ufficio. A scuola di Marco è ricreazione. Sta passando il tempo giocando a pallone con i suoi compagni di classe, con una palla improvvisata, ricavata grazie a del cartone e nastro adesivo. Matteo, invece, sta leggendo. I suoi compagni di classe sono fuori a correre, a giocare e ad urlare, ma lui non sembra interessato a tutto questo e preferisce immergersi nelle sue letture. I libri con le immagini dei dinosauri sono le sue preferite.
La madre, Marisa, passa a prendere Marco e Matteo all'ora di pranzo. Si dirigono verso casa e mangiano da soli, come è consuetudine. Il padre tornerà a casa solo verso sera, come ogni giorno.
E le giornate passano così, con una normalità ripetitiva tale da sembrare noiosa. Matteo è un appassionato di videogiochi, Marco di pugilato.
Marisa è una madre premurosa e Giuseppe non è da meno. Amano i loro bambini e fanno di tutto per dimostrarlo. Come portarli fuori città ogni fine settimana, ad esempio.
Quasi tutti i venerdì Giuseppe passa a prendere i figli a scuola, li porta a pranzo con se e poi in ufficio, se non ha molto da fare. All'ora di chiusura passa a prendere la moglie e tutti insieme vanno in posti sempre diversi. Sia Marco che Matteo adorano questa cosa ed è per questo che forse oggi sono così contenti. È venerdì e il padre ha promesso di portarli due giorni al mare, in Sardegna.
“Dove l'acqua è più blu!” Dice il padre a Matteo e Marco. E sorride. Un sorriso benevolo, dolce. Di quelli che ti fanno pensare che tutto questo durerà per sempre.
Mentre sono a pranzo stanno decidendo come organizzare i due giorni al mare. A Giuseppe arriva una chiamata dalla banca. Purtroppo dobbiamo finire il pranzo in fretta perché c'è bisogno di lui per ricevere dei clienti importanti.
Arrivati alla banca scendono e si dirigono verso l'entrata.
Una volta entrati Matteo e Marco corrono subito verso l'ufficio del padre, facendo a gara per appropriarsi della comoda poltrona da direttore di banca. Giuseppe si attarda a guardarsi intorno e poi li raggiunge.
E qui inizia l'incubo.
Entrando nell'ufficio si trova davanti ai dipendenti legati ed imbavagliati in un angolo. Delle persone armate gli balzano addosso immobilizzandolo. Subito il pensiero va ai figli e si volta per controllare dove siano.
Stanno bene, sono proprio lì, davanti a lui. Le pistole alle tempie.
Con un misto di orrore, paura e sangue freddo chiede le ragioni di tutto questo, ma la risposta è tanto ovvia quanto scontata da non aver bisogno di molte parole. Si tratta di una rapina.
Subito Giuseppe si preoccupa di spiegare ai rapinatori che gli è impossibile aprire la cassaforte e che gli unici soldi disponibili sono quelli alla cassa.
I rapinatori, forse i più imbecilli sulla faccia della terra, non sono d'accordo e sono convinti che Giuseppe possa aprire la cassaforte principale.
“Te la faccio facile: o apri la cassaforte o i tuoi figli si fanno male”
A queste parole il volto di Giuseppe cambia espressione. Adesso non è più paura. È calma e fermezza. La sua voce si fa decisa e in poche parole spiega come funziona la cassaforte.
Mentre parla Matteo piange e Marco è immobilizzato dalla paura.
Uno dei rapinatori si spazientisce e colpisce Giuseppe. Marco urla e si lancia verso il rapinatore. Matteo chiude gli occhi.
Quello che segue è solo un'accozzaglia non ben definita di urli, spari e poi è solo rumore di scarpe che si allontanano.
Matteo riapre gli occhi urlando dal dolore. Le sue gambe sono stese a terra, in una pozza di sangue. Vicino a lui il corpicino del fratello, dilaniato da una scarica di mitraglietta. Poco più distante il padre, ancora vivo, ma con evidenti difficoltà respiratorie. Nella stanza l'odore acre della polvere da sparo e del sangue. Le orecchie che fischiano e quel silenzio assordante. Tutto sembra immobile, fermo. I dipendenti non si sono ancora mossi dal loro angolo. Il padre di Matteo piange, guardando suo figlio Marco, sdraiato in terra, immobile. Poi volge lo sguardo verso Matteo, che sta piangendo, con una smorfia di dolore in volto.
“n..no...non piangere piccolo mio..” dice Giuseppe, con le lacrime agli occhi.
Matteo sta impazzendo dal dolore, ma riesce a guardare per un ultima volta suo padre, mentre la flebile luce che ancora albergava in lui si spegne, lasciando spazio solo ad un buio interminabile nei suoi occhi.
Matteo urla.
Mi sveglio di soprassalto, spaventando Luigi che era in piedi di fronte a me, cercando di farmi riprendere con degli schiaffetti sulle guance.
“Cosa è successo?” chiedo.
Scopro di essere svenuto per alcuni minuti.
“Si, capisco”.
Poi mi rivolgo verso Luigi:
“Continua”.
“Sei sicuro?
Non mi sembri in gran forma, se vuoi continuiamo fra un po'. Morto non mi servi a niente, adesso.”
“Continua.” Gli rispondo.
“Bah, d'accordo.
È presto detto, queste persone se ne andarono con un bel malloppo e con delle vittime che aggravavano la situazione.
Successe che per evitare di finire in galera decisero di aspettare che le acque si fossero calmate, prima di andarsene in giro con quei soldi o di cercare di riciclarli. Aspetta che ti aspetta finì che i soldi, un bel giorno, sparirono.
Te potresti dire che è normale e che non bisognerebbe fidarsi di altri ladri. E io ti darei ragione. Il problema però è che i soldi non erano nascosti tutti in un unico posto.
Proprio per evitare che a uno di loro venisse in mente di prendere tutti i soldi e scappare li divisero in tante parti quanti erano quelli che avevano partecipato alla rapina e ognuno li nascose in un posto che solo lui conosceva.
Non furono divisi equamente, ma a caso. E la maggior parte dei soldi rimase in mano a quello che allora era reputato come il capo.”
“E tutto questo cosa c'entra con me?” Gli domando.
“C'entra” mi risponde.
“C'entra perché quasi tutti i soldi sono spariti e solo tu sai dove si trovano. C'entra perché a quanto pare non ti bastava la vendetta, dovevi anche rubarmi tutti i soldi”.
“Rubarti?” chiedo.
“Si, rubarmi. Non ci sei ancora arrivato?
Sono io che organizzato tutto. Sono io il capo della banda. È solo grazie a me se siamo riusciti a mettere a segno un colpo così perfetto che è stato rovinato dall'imbecillità di tuo padre che voleva fare l'eroe. Disse che non poteva aprire la cassaforte. Stronzate.
Dopo la sparatoria gli altri riuscirono ad aprirla e anche se tutto non andò come previsto riuscimmo comunque a concludere. Se non fosse stato per quell'idiota e per te, che dopo tanti anni hai deciso di farti giustizia da solo, a quest'ora penseremmo solo a goderci la vecchiaia. Trenta anni, tanti mi ci sono voluti per organizzare un colpo perfetto, dopo aver perso tempo a rincorrere criminali per tutta la vita, e tutto è andato a puttane grazie a te. Sai,inizialmente pensavo che mi prendessi per il culo tant'è che pensavo di farti fesso con la storia dell'"amicone" che fa di tutto per farti uscire di galera. Hai idea dei favori che ho dovuto fare per farti uscire? Ho leccato la mia bella dose di culi pelosi e tutto per seguirti fino ad arrivare alla conclusione che davvero ti sei fritto il cervello e non ricordi niente.. due anni.. ti sono stato dietro come un gatto che osserva un uccellino aspettando il momento di strappargli le penne e mangiarlo.. tutto per niente..”
Mentre Luigi continua a parlare penso e ripenso a quello che mi ha detto, cercando di collegare il tutto ad un filo logico e a mettere in ordine tutto il casino che ho in testa. Ma, in realtà, l'unica immagine che ho impressa nella mente è lo sguardo di mio padre prima di morire.
Mio padre. Sto iniziando a ricordare qualcosa finalmente.
E per riuscirci, purtroppo, avevo bisogno di farmi raccontare la mia vita da chi me la ha rovinata. L'assassino di mio padre è qui, di fronte a me. Chissà se prima di perdere la memoria lo sapevo o se stavo cercando di arrivare a lui. Questo spiegherebbe il mio modo di operare sulle vittime.
Sono un cazzo di boia che tortura la gente per carpirgli informazioni.
Luigi continua a parlare. Mi racconta come sono andate le cose.
Dopo che il primo è sparito hanno pensato semplicemente che fosse in vacanza e se ne fosse andato senza avvertire nessuno. Ma quando è sparito il secondo hanno cominciato a sentire puzza di bruciato. Inizialmente si sono dati la colpa l'un l'altro, ma poi hanno capito che ammazzarsi tra loro non sarebbe stata una buona idea e hanno avanzato l'ipotesi che ci fosse un altra pedina nel gioco. Anche perché un conto sarebbe stato sbarazzarsi di due persone, mentre la realtà era che sparivano intere famiglie.
Dopo che la terza persona è sparita, insieme a tutta la famiglia, sono cominciate le ricerche.
Si è iniziato a parlare sui giornali di un “babbo natale cattivo” che invece di portare regali portava via le famiglie.
“Bad Santa Claus. Così ti hanno chiamato. Quanto sono coglioni alcuni giornalisti, eh?!”
Gli chiedo perché quel nome.
“Perché hai cominciato la tua opera nel periodo del natale.”
continua dicendomi che dopo la quarta famiglia sparita la polizia era nel panico. Nessuno si fidava più a uscire di casa e nemmeno a richiudersi dentro.
C'è stato addirittura un periodo in cui molta gente è andata all'estero in attesa di sviluppi. Il fatto di essere in polizia gli ha dato dei vantaggi, tra cui quello di poter chiedere informazioni su chiunque senza rendere conto a nessuno. Mi racconta che si è dato da fare per capire chi potesse essere ad avercela con loro così tanto da far sparire intere famiglie. La risposta è riuscito a trovarla qualche tempo dopo, quando è sparito il quarto dei loro.
È riuscito a collare tutti quanti alla rapina in banca, in cui io ero sopravvissuto.
Attraverso dei semplici controlli è risalito a dove abitavo.
“A quell’epoca” mi dice “eri ospite a casa di tuo zio. Tua madre era morta da poco e tu non eri abbastanza indipendente per poter vivere da solo. Tra le altre cose ho visto che hai un curriculum niente male, per quanto riguarda piccoli furti ed espedienti vari, compreso lo spaccio.”
“Che è successo a mia madre?” gli chiedo.
“Dalle mie ricerche risulta che era un alcolizzata. Ha avuto un'incidente stradale mentre tornava a casa, una sera, e non ce l'ha fatta. Guidava ubriaca, è finita fuoristrada.” mi risponde.
Continua dicendomi che mi ha seguito per giorni interi fino a che non è riuscito a scoprire dove portavo tutti quanti.
Poi smette di raccontare e mi fissa.
“ma che hai? Stai bene? Mi sembri pallido”
Faccio in tempo a sentire queste parole e poi è solo buio.
Capito 11
sogni
Sono al parco. Un giorno come tanti.
E queste parole:
“io ti ammazzerò Matteo.
Ti ammazzerò come una cane e finirò il lavoro che mio padre ha lasciato a metà”.
Silenzio.
Non sento più niente. Intorno a me è come se niente esistesse e quelle parole risuonano nella mia testa per alcuni secondi.
Mi volto lentamente verso di lui. Lo sguardo impassibile, gli occhi aperti, come volessero urlare quello che provano. Scatto su di lui colpendolo in faccia con un calcio, mentre l'altro giace già a terra svenuto, e corro verso la macchina. Corro come non ho mai corso in vita mia. Sento battere il cuore dentro la mia testa e ogni muscolo del mio corpo mi fa male. Arrivo alla macchina e, in tutta fretta, la accendo per poi partire a razzo. Arrivo al parco e con una velocità degna di rapitore butto di peso i due fratelli in bauliera. Chiudo per poi partire a razzo verso casa.
Quando arriviamo la parte più difficile è riuscire a portarli dentro senza farmi vedere. Così, senza nemmeno pensarci, parcheggio la macchina sul giardino, avvicinando il più possibile il retro alla porta di casa. I vicini mi guardano incuriositi, come è ovvio. Esco di macchina e dico loro qualcosa per convincerli a sloggiare:
“beh?! Mai visto uno che trasloca?”
Si voltano visibilmente offesi. Stupidi impiccioni.
Entro in casa ed esco con una coperta, apro il portabagagli e la uso per avvolgere Hamed. Lo prendo in braccio per portarlo in casa, dopo essermi assicurato che Bhilaa sia svenuto. Per farlo pungo una sua gamba con le chiavi e non ottenendo nessuna reazione capisco che molto probabilmente ne avrà ancora per molto. Porto Hamed in casa e lo immobilizzo alla meglio con del nastro isolante, avendo cura di coprire anche la bocca. Poi corro fuori e ripeto l'operazione con Bhilaa.
Li guardo per alcuni minuti, mentre i loro corpi sono qui davanti a me, immobilizzati a delle sedie, con tutte quel sangue che esce dalle loro facce, le teste chine.
Se non fossero legati come salami sembrerebbe che stiano dormendo.
Vado a cambiarmi, in tutta fretta, e riprendo la macchina per andare al supermercato. Una volta lì per prima cosa mi procuro dell'alcool, lacci emostatici, tanto nastro isolante, un paio di cesoie, pinze, un martello grande ed uno piccolo, una pietra per affilare, qualche birra e la cena.
Uscendo passo di farmacia.
Mi arruffo un po' i capelli ed entro. Il mio aspetto “agitato” gioca un ruolo fondamentale in questa fase. Chiedo scusa alla commessa per il mio aspetto un po' fuori dalla norma e le faccio presente che non riesco a dormire la notte per ovvi problemi di insonnia, chiedendole se può consigliarmi qualche prodotto per prendere sonno. La commessa è molto gentile e mi illustra tre prodotti. Prendo quello di media intensità e le chiedo come posso fare per somministrarmelo da solo o se devo chiedere aiuto ad un familiare. Mi spiega che basta mettere due gocce del prodotto in un bicchiere pieno d'acqua e berlo.
Torno a casa in fretta.
Entro in casa e preparo una bottiglia d'acqua e verso dentro metà boccetta. Una volta pronta prendo un pungolo e vado verso i due fratellini. Hamed è già sveglio.
“Adesso ti darò da bere, ma non sperare di urlare. Anzi, ti consiglio vivamente di stare fermo”.
Pratico un piccolo foro sul nastro adesivo che copre la bocca, in modo da infilarci una cannuccia.
“Ecco, ora puoi bere”. E Hamed beve.
Anche Bhilaa si sveglia e il procedimento è il solito.
Una volta che li ho fatti bere prendo una sedia e mi metto davanti a loro.
Mi guardano in cagnesco, il respiro affannoso, i volti tumefatti.
“Sai Hamed..” gli dico, mentre mi accendo una sigaretta “avresti fatto meglio a star zitto. Adesso mi toccherà torturarti per farti dire tutto quello che sai”
Aspiro una boccata dalla sigaretta.
“Te non hai idea di quello che ho passato e del tempo che ho perso cercando di scoprire chi è stato a uccidere mio padre e mio fratello. Adesso che tu me lo hai detto farò in modo che tu mi dica tutto quello che sai. Poi toccherà a tuo fratello, e solo dopo che mi avrete detto tutto deciderò se varrà la pena di uccidervi o rimandarvi a casa. Non subito, ovvio, ma una volta che tutto sarà finito”.
Vedo le palpebre dei due socchiudersi e le teste cadere in avanti, per poi tornare su di scatto.
“Non preoccupatevi, non è niente. Ho solo messo del sonnifero nell'acqua, così non vi agitate”.
Hamed dice qualcosa, ma credo siano solo offese o altre stronzate simili.
Non appena li vedo crollare finisco la mia sigaretta e mi avvio, con calma, a fare una doccia. Guardo fuori ed è già buio pesto.
Sarà un freddo ottobre.
Guardo la sigaretta.
È comodamente adagiata fra il mio dito indice ed il medio. Do un colpetto con il pollice e la cenere cade a terra. È interessante notare la velocità con cui la cenere della sigaretta corre verso il suolo. Si crede che essendo leggerissima debba impiegarci un po' più di tempo, fluttuando nell'aria, planando dolcemente verso il suolo, ed invece cade quasi in linea retta alla maniera di un pesante sasso.
Poi guardo la cenere in terra e penso che dopo mi toccherà pulire.
Ma adesso non ho tempo di pensare a questo.
Spengo la sigaretta e mi rimetto i guanti. Scelgo con cura il prossimo attrezzo e mi dirigo verso Hamed, ormai ridotto ad una maschera di sangue. Lo guarda e penso a cosa potrei fargli, di nuovo. Oramai gli ho tolto già qualche dente e gli ho inserito un chiodo nel naso, alla moda dei piercing.
Non mi ha ancora detto quello che voglio sapere. All'inizio pensavo che fosse colpa del fatto che ci andavo leggero. Prendere a pugni uno che bene o male ci è abituato è controproducente, così ho ripiegato verso altri mezzi e, nonostante tutto, pare che stia funzionando. Se non altro adesso ha smesso di fare il duro.
Bhilaa è legato alla sedia, in un angolo, con la faccia rivolta verso la parete. Non voglio che veda in anticipo quello che gli farò, preparandosi psicologicamente o cose così. E poi anche questa, in fondo, è una forma di tortura.
Mi avvicino ad Hamed e lo fisso. Le braccia incrociate, a valutare quello che ho fatto, come un artista con la propria opera.
Cosa potrei aggiungere, cosa potrei togliere per rendere unica la mia opera?
Hamed, intanto, si rivolge a me dicendomi che posso tranquillamente ucciderlo perché non mi dirà mai quello che voglio sapere.
Io lo guardo e sorrido.
“Oh, si. Lo farai. E molto presto anche”.
Poi mi volto per prendere del filo spinato e glielo sistemo intorno alle gambe, in modo che le punte premano sulla pelle, ma senza conficcarsi nella carne. Quando ho finito prendo una bottiglia d'acqua e bagni i suoi piedi.
“Questo ti farà male” gli dico. E subito dopo gli aggancio delle pinze da batteria sugli alluci.
Poi mi allontano e gli chiedo se ancora non vuol parlare.
Non risponde. In fondo quasi ci speravo.
Collego i cavi ad una batteria per macchina. La scarica è sufficiente perché lui sobbalzi e il filo spinato gli penetri nelle gambe.
La smorfia di dolore mi fa capire che ho trovato il modo giusto per ottenere qualcosa da lui. Tolgo i cavi dai suoi piedi e li aggancio al filo filo spinato sulle sue gambe. Poi torno verso la batteria e, senza dire niente o prestare attenzione a cosa sta cercando di dirmi Hamed, ricollego i cavi alla batteria.
Lo guardo attentamente contorcersi sulla sedia, mentre il filo spinato conficcatosi nella carne gli fa fuoriuscire degli schizzi di sangue ogni volta che ricollego i cavi. Sta urlando come un pazzo e dai suoi occhi sgorgano copiose lacrime, segno che è arrivato al limite.
Ogni volta che la scarica elettrica gli attraversa il corpo non può fare a meno di contrarre i muscoli delle gambe e lacerarsi con il filo spinato, che gli scarica elettricità direttamente dentro la carne.
Non so dire se quello che faccio mi piace o no. So solo che non mi fermerò fino a quando non avrò ottenuto quello che voglio.
Bhilaa è preoccupato per il fratello. Si dimena nel tentativo di liberarsi dalle strette corde, rinforzate con del nastro isolante, ma l'unica cosa che ottiene è di cadere sulla schiena, ribaltando la sedia.
Forse voleva semplicemente attirare la mia attenzione. Direi che ci è riuscito.
Smetto di giocare con Hamed per andare a rialzare Bhilaa. Poi lo fisso negli occhi e gli dico “vediamo di intenderci. Per me voi potete anche non dirmi niente, ma continuerete a starvene qui rinchiusi fino a che non sarò riuscito a farvi parlare, inventando ogni giorno qualcosa di nuovo. L'alternativa è dirmi quello che voglio sapere, così che possa lasciarvi in pace per trovare chi ha ucciso mio padre e mio fratello”.
Bhilaa mi guarda.
“Perché ci fai questo?” mi chiede.
“Perché?” rispondo “Hai idea dell'infanzia che ho avuto? Hai idea di cosa voglia dire veder morire tuo padre e tuo fratello davanti ai tuoi occhi? Essere sdraiati sul loro sangue?
No, non lo sai. Non puoi saperlo e mai lo saprai, per tua fortuna. Io però non ho la tua fortuna e lo so, quindi voglio sapere chi mi ha rovinato la vita per un capriccio. Sono stato esauriente?”
Bhilaa continua a fissarmi.
“Ma non puoi dare la colpa a noi se nostro padre ha ucciso il tuo..”
Ora è solo silenzio.
Sento i muscoli irrigidirsi. Sposto la testa di lato facendo schioccare le vertebre del collo e mi volto verso di lui.
“Dunque.. tu mi confermi che è stato tuo padre?”
Bhilaa continua a fissarmi, visibilmente preoccupato.
“Si” mi risponde.
Lo fisso a mia volta per alcuni secondi, poi sistemo le mie cose e abbandono la stanza. Uscendo non faccio caso alla differenza di temperatura, ma poi mi rendo conto che ho bisogno immediatamente di una doccia, se non voglio ammalarmi. Non posso rischiare, altrimenti sarei costretto a rimandare.
Nella stanza il calore è insopportabile. L'ho ricavata sistemando materassi sulle pareti, in modo che da fuori non si possa sentire niente. Il problema è che oltre a non far passare i rumori non permette nemmeno un ricambio di aria decente o alla stanza di raffreddarsi.
Appena uscito dalla doccia sento il telefono squillare. È Cloe.
Non le rispondo. Da ottobre non mi sono fatto più sentire. Credo che cambierò numero, almeno non avrò più problemi di questo genere.
Mi dispiace per lei ma non voglio che faccia parte di tutto questo. Non se lo merita e piuttosto che raccontarle la verità preferisco che mi creda uno stronzo. E poi, adesso, non mi interessa più niente. Non voglio più avere altri pensieri per la testa. L'unica cosa che voglio è vendicarmi.
Vendetta. Pura e semplice.
Voglio uccidere uno ad uno tutti quei figli di puttana che hanno ucciso mio padre e mio fratello, costringendo me a diventare un pezzo di merda egoista che ha causato la morte di sua madre e che non è stato capace di vivere decentemente. Tanto vale, dunque, toccare il fondo, praticare un foro e gettarvisi in picchiata visto che ormai non si può più tornare indietro.
“Mi ha sempre fatto fatica salire le scale. Tanto vale scendere ancora” dico a me stesso.
Mi vesto ed esco di casa.
Non faccio più il lavoro che facevo prima. Mi sono licenziato dopo nemmeno sei mesi. Non avevo tempo per star dietro ad un povero cretino incravattato e con la puzza sotto il naso.
Ho qualche spicciolo in banca, frutto di lavoretti estivi, e qualcosa l'ha ricavata dalla liquidazione. Per adesso non ho bisogno di altri soldi. Se mai ne avrò bisogno penserò a come fare.
Vado al supermercato a comprare la cena, qualcosa da bere ed altre cosette.
Come sempre, al ritorno, passo dalla sala giochi a fare un giro. Non ho più visto Massimo e non ho idea di che fine abbia fatto.
Dopo il rito del “passaggio” torno a casa a prepararmi la cena, che consumo davanti alla tv. Uno dei vantaggi del vivere da solo.
Non ho ancora deciso cosa fare di Bhilaa e Hamed. Io fondo loro non c'entrano niente. Sono dei grandissimi stronzi, intendiamoci, però non è un valido motivo per farli fuori. Ci penserò.
Consumo la mia cena guardando un cartone animato e, una volta finito, vado a prepararmi.
Indosso il mio “completo da battaglia”, come ai vecchi tempi. Con l'unica differenza è che adesso indosso anche un passamontagna. Considerando che è inverno direi che è una buona cosa.
Casa di Hamed finalmente è libera. È da un mese che è sempre pieno di poliziotti qui intorno. Forse pensavano che “i rapitori” chiamassero a casa per chiedere un riscatto e poi hanno desistito dall'attendersi una telefonata.
Adesso posso pensare a come agire. Il problema più grande è che abitano in un palazzo. Sicuramente sarà circondato da stupide telecamere. Devo riuscire a prenderlo prima che entri o trovare un altro modo per arrivare a lui.
“Pensa cazzo, pensa!” dico a me stesso. Poi mi rendo conto che devo tranquillizzarmi o non riuscirò a combinare niente. Mi siedo un momento per riordinare le idee e valutare la situazione.
Lavora in fabbrica, quindi non posso sperare di prelevarlo a lavoro, anche se il fatto che non sia in un ufficio mi facilita le cose. Potrei cercare di farmi assumere dove lavora ma impiegherei troppo tempo e non ho voglia di tirarla per le lunghe.
No, devo trovare un altra soluzione.
Mentre ci penso tiro fuori altre due o tre idee. Per distrarmi e valutarne altre decido anche di fare un giro intorno alla casa, cercando sempre di non farmi notare o comunque di mostrarmi un semplice passante. Finisco il giro e non trovo niente di interessante. Decido quindi di andarmene per valutare bene la situazione quando lo vedo uscire dal portone principale.
Inizialmente rimango un po' sorpreso, poi la rabbia prende il sopravvento. Vorrei saltargli alla gola e strappargli il cuore ancora pulsante dal petto per mangiarlo davanti ai suoi occhi.
Ma poi mi ricordo perché sono lì e mi comporto come se niente fosse. Continuo a camminare. Gli passo così vicino da poterlo vedere bene in faccia. Continuo a camminare e dopo pochi passi mi volto verso di lui mostrandomi sorpreso.
“Ma lei è il padre di Hamed?” gli chiedo.
Lui si volta fermandosi. Mi guarda e mi risponde di si, un po' stordito.
“Mi scusi, sono Matteo un amico di suo figlio. Mi ha telefonato qualche giorno fa per dirmi che ha combinato una casino. Ho preferito non dire niente alla polizia e sono venuto a cercare lei direttamente. Mi ha espressamente detto di non farlo ma io non me la sono sentita di lasciar perdere. Mi scusi se ci ho messo tanto ma non sapevo dove abitava”
A quelle parole il volto di suo padre si illuminano di gioia e allo stesso tempo di rabbia.
“Sta bene? Dov'è? Che ha combinato? Ma con chi è? Come ha fatto ad andare avanti fino ad ora?”.
È visibilmente scosso.
Cerco di calmarlo rispondendo ad alcune delle sue domande e poi mi offro di accompagnarlo da lui, a patto che non dica niente a nessuno e che non dica ad Hamed che sono stato io a portarcelo.
“Si si non c'è problema, portami subito da lui, poi ci penso io”.
Saliamo in macchina e lo porto a fare un giro.
Mentre siamo in viaggio allungo la mano dietro al sedile e tiro fuori una bottiglietta d'acqua.
“Tenga, beva un sorso. La vedo un po' agitato” gli dico.
Si volta di scatto.
Guarda me e poi la bottiglietta dicendomi “no, ti ringrazio”.
“Coraggio, le farà bene. Almeno la sete se la tolga subito, il resto se ne andrà una volta riabbracciato suo figlio. Mi raccomando non dica che ce l'ho portata io lì. Ah, se vuole ho anche delle birre”.
“No, no, non preoccuparti”
Mi risponde, prendendo la bottiglia.
Beve qualche sorso d'acqua e si calma un poco.
Poi si rivolge a me dicendomi:
“come hai detto che ti chiami?”
“Matteo” gli rispondo.
“Si, giusto. Matteo. Si, mi pare che mi abbia parlato di te. Hai un nome che ho già sentito.”
Poi si guarda intorno.
“Manca ancora molto?” mi chiede.
“No, ci siamo quasi”.
Continuo a guidare per altri cinque minuti e poi parcheggio.
“Da adesso dovremo farcela a piedi”.
Scendiamo di macchina e gli indico la strada da seguire.
“Ecco, camminando per questa strada si arriva a una casa abbandonata. Hamed vive praticamente lì. Se vuole posso accompagnarla fino a quando non saremo vicini, ma poi sarò costretto ad andarmene per non farmi scoprire. Ha con se un cellulare?”
“Si, certo”
“Bene, allora quando lo avrà trovato potrà farsi dare tutte le spiegazioni che vuole e dopo potrà decidere cosa fare e chi chiamare”.
Poi entro in macchina, prendo un bicchiere e lo riempio di birra.
“Tenga, qui vicino c'è un bar. Se lo vedrà arrivare con una birra in mano potrà sempre dire di essere stato lì e di essersi incamminato per stare un po' da solo. Le conviene berne un po' prima, però”.
Gli porgo il bicchiere e lui mi guarda un po' stranito.
Poi beve una buona sorsata di birra e leccandosi i baffi mi guarda.
“Come conosci mio figlio?”
“Amicizie in comune. Abbiamo giocato tante volte a pallone insieme”.
“Mio figlio non gioca a pallone”
“Lo so, ma è la prima cazzata che mi è venuta in mente.”
Adesso ci guardiamo in silenzio. Sorseggiamo ognuno la sua birra.
“E adesso?” mi chiede.
“Adesso aspettiamo che il sonnifero nella tua birra faccia effetto e poi ti porto da tuo figlio” gli rispondo.
Capito 12
recluso
Quando riapro gli occhi non sono più legato alla seggiola. Sono in una specie di prigione. Una piccola stanza con una sola porta e le pareti lisce come piastrelle.
Faccio per rigirarmi e cado nel vuoto, per poi atterrare due secondi dopo sul pavimento.
Proprio l'ultima cosa di cui avevo bisogno, adesso. Non ho idea di quanto ho dormito, sono confuso, mi fa male la testa, ho fame e sono appena atterrato di fianco su un pavimento di duro cemento.
Faccio fatica a rialzarmi.
Quando ci riesco mi avvio verso il piccolo tavolino che c'è in un angolo della stanza. Mi siedo sullo sgabello e mi verso un po' d'acqua.
Poi, con calma, osservo il tavolino e quello che c'è sopra. Un po' di frutta fresca, dei panini e del formaggio.
Questo non è positivo. Non si rapisce qualcuno, dopo aver cercato di ucciderlo, per poi trattarlo bene.
"Sono fottuto" dico a me stesso.
Poi mi stringo sulle spalle come non me ne importasse niente ed inizio a mangiare.
Devono avermi iniettato qualcosa, probabilmente della morfina o comunque dei calmanti, altrimenti non saprei come spiegarmi perché sto così male.
Finito di mangiare inizio a passeggiare per la stanza, cercando di riprendermi e di riacquistare sensibilità in tutto il corpo. Mentre lo faccio ripenso a quello che ho sognato, o meglio, a quello che ho ricordato questa volta. Poco a poco sto riacquistando la mia memoria e, ad essere sinceri, provo un po' di inquietudine.
Cosa succederà quando ricorderò tutto?
Tornerò ad uccidere?
Finirò il lavoro con Luigi e Lidio e poi smetterò?
Potrò continuare a vivere come adesso o sarò come posseduto dalla rabbia e dalla disperazione?
Tutte domande a cui non posso dare risposta, primo perché non posso saperlo e secondo perché non ho tempo per farlo. Qualcuno sta per entrare nella stanza.
Sento la chiave entrare nella serratura ed azionare i pesanti meccanismi. La porta si muovo verso l'interno strusciando sulla polvere leggera che ricopre la stanzetta e producendo un leggero cigolio metallico. Il primo ad entrare è Luigi, seguito da quel leccapiedi di Lidio.
È Luigi ad aprire il dialogo:
"Ben svegliato, ragazzo"
Sorrido.
"Ma te lo porti dietro anche a pisciare quel succube lì dietro?" gli chiedo, facendo cenno con la testa verso Lidio.
E riesco finalmente a farlo parlare.
"Ma si, ridi, scherza fin che puoi, continua pure a fare il pagliaccio. Non hai idea di quello che sta per capitarti" mi dice.
"L'importante è che non sia passare una serata insieme a te. succube!" Gli rispondo.
Lui non gradisce. Si avventa su di me prendendomi a pugni fino a che non interviene Luigi a trattenerlo e a riportare la calma.
Sono a terra mezzo intontito, ma sento con chiarezza Luigi sbraitare in faccia a Lidio in merito al motivo per cui mi hanno portato qui. Qualcosa del tipo: "che cazzo lo abbiamo portato a fare qua, vivo, se poi tu lo ammazzi a calci e pugni, me lo spieghi?
Hai insistito per prenderlo vivo ed interrogarlo e ora lo ammazzi?" o qualcosa del genere.
Scuoto la testa e sputo sangue a terra. Poi mi rivolgo a Luigi:
"picchialo con un giornale arrotolato. è così che si fa con i cani cattivi”
E poi sorrido, i denti insanguinati, sdraiato su un fianco.
I due mi guardano in silenzio per qualche secondo, poi Luigi si avvicina, tirando fuori la pistola.
"Coraggio, dì un'altra battuta, facci ridere, forza!" mi dice, premendo la pistola sulla mia faccia.
"Sei ridicolo" gli rispondo.
“E pure coglione. Hai appena detto a lui che non vuoi uccidermi e pensi di farmi paura puntandomi addosso una pistola?"
Mi colpisce con il calcio della pistola, facendomi perdere i sensi.
Quando riapro gli occhi sono immobilizzato su un lettino.
Luigi sta gironzolando qui intorno, sistemando cavi e altre cose.
"Ma tu non lavori mai?" gli chiedo, senza ottenere nessuna risposta.
Cerco di muovere la testa e noto alcuni sensori, del tipo che si usano in ospedale per controllare il battito cardiaco, attaccati al mio corpo.
"No buono" dico fra me e me.
"Sai" inizia a parlare "facendo il mio lavoro capita spesso che chi è accusato di omicidio, o cose del genere, per cui debba farsi almeno una decina buona di anni di galera, cerchi di difendersi ostentando perdite di memoria o cazzate del tipo "ero fuori di me, non mi ricordo niente" eccetera e il modo migliore per vedere se sono sinceri o se dicono vagonate di stronzate è fulminargli il cervello con queste"
Mi mostra due piccoli bastoncini da cui partono un paio di cavetti, collegati a una specie di videoregistratore modello anni 90, con in cima due piccole piastre metalliche.
"Grazie a questo giocattolino sono riuscito a far rinsavire molti "smemorati". In alcuni casi sono bastate due piccole scosse. Tu quanto durerai?"
Mi chiede, voltandosi verso di me.
"Credo in eterno, visto che io non faccio finta" gli rispondo.
"Oh, non preoccuparti. Secondo alcuni studi, se è fatto bene, l'elettroshock può servire anche a far tornare la memoria".
"Ah beh, allora.. Tanto te sei un medico esperto, vero?"
sorrido.
"Vaffanculo Luigi. Prima o poi riuscirò a liberarmi e ti sbranerò come ho fatto con la mia ultima vittima".
Appena finisco la frase Luigi smette di trafficare nel balcone qua accanto. Si blocca ed inizia a ridere. Da prima una risata sommessa, poi sempre più forte, come se qualcuno avesse appena finito di raccontare una barzelletta divertente.
Poi si volta verso di me:
"tu non hai mai sbranato nessuno povero scemo. Anzi, a dire la verità tu non hai proprio mai ucciso nessuno".
Rimango per un attimo perplesso e poi volto gli occhi verso di lui.
"Ma che stai.. che?! che vuol dire?"
Mi guarda. Le braccia distese lungo il corpo. Quegli affari in mano.
Si avvicina.
"Lascia perdere. Poi ti racconto"
Queste sono le ultime parole che sento. Dal momento in cui avvicina quei cosi alla mia testa perdo ogni concezione di tempo e spazio.
Quando mi riprendo sono nella mia "cameretta". Apro gli occhi e mi appare quel maledetto soffitto bianco, con quella fottuta lucina fastidiosa. Ho i muscoli indolenziti. Mi sento come se una mandria di bisonti mi fosse appena passata sopra.
E voi, giustamente, mi chiederete: come fai a sapere come ci si sente quando una mandria di bisonti ti passa sopra?
Ed io vi risponderò: voi lo sapete?
Io non lo so, ma immagino che la sensazione sia questa.
Faccio per alzarmi e lancio un grido di dolore. Una volta seduto sul letto mi alzo la maglietta. Ho delle bende all'altezza del petto. Devo avere delle costole rotte.
Cerco di alzarmi per raggiungere l'acqua che c'è sul tavolino. Non appena sono in piedi le gambe iniziano a tremare e rischio di cadere ad ogni passo ma ho le labbra secche, come fossi appena uscito dal deserto, e il desiderio di raggiungere quella bottiglia leggermente umida è troppo forte.
Con un ultimo sforzo raggiungo il tavolino e mi appoggio lì sopra. Mi siedo e allungo la mano verso la bottiglia. Mentre la apro le mani mi tremano. Sento l'acqua scendermi nella gola e le sensazione è bellissima.
Arrivato a metà bottiglia mi fermo per riprendere fiato.
Mi volto verso la porta e mi guardo attraverso il riflesso.
"Riflesso.." penso.
"Specchio.. La porta a specchio!".
"La porta è a specchio!" Dico ad alta voce.
Poi evito di parlare ancora e ricomincio a pensare.
"Questa porta è a specchio. È per questo che luce è sempre accesa. Oltre a indebolire chi è qua dentro grazie alla tecnica di privazione del sonno serve anche a fare in modo che chi è qua dentro non veda fuori e che chi è fuori veda quanto è destabilizzato chi è dentro, oltre a permettergli di tenerlo costantemente sotto controllo. Luigi, maledetto figlio di puttana.. mi ha portato dove facevo gli interrogatori".
Bevo qualche altro sorso e poi mi alzo di nuovo.
"Devo camminare, riattivare la circolazione ed i muscoli. Devo essere pronto".
Cammino per una buona mezz'ora zoppicando ed imprecando ad ogni fitta chi mi prende all'addome, prima di riuscire a camminare correttamente. Faccio piccoli passi, senza affaticarsi troppo. Da una parete all'altra, senza esagerare.
"Luigi. Luigi. Luigi. Luigi. Luigi." non riesco a pensare ad altro.
"Ha ucciso la mia famiglia e voleva uccidere anche me. Poi ci ha ripensato e ora mi sta torturando per farsi dire dove ho nascosto i soldi. Quei soldi che sono costati la vita a mio padre e mio fratello e che lui ora spera di godersi. Anche se me lo ricordassi non gli direi mai dove sono. E come se non bastasse adesso mi ha portato nella mia "tavernetta delle torture" per convincermi a dirgli qualcosa che non so, utilizzando l'elettroshock. Come se fulminarmi il cervello potesse servire a farmi ricordare, accidenti a lui.
Però qualcosa mi ricordo, oh si. Mi ricordo, ad esempio che mi chiamo Matteo e lui luigi. E mi ricordo anche di Lidio, quel piccolo bastardo succube di Luigi. Devo trovare il modo di.."
E mentre penso a queste cose ecco che qualcuno si appresta ad entrare. Sono loro due che mi portano da mangiare.
"Sempre in coppia voi due, eh!? Proprio come i coglioni"
Sia Luigi che Lidio rimangono per un attimo perplessi. Poi lo Sbirro prende la parola.
"Vedo che ti sei ripreso in fretta. Ah, senti, hai un paio di costole incrinate e uno strappo muscolare alla gamba, non ricordo quale. Inconvenienti del mestiere. Su, mangia. hai dormito 20 ore filate, immagino avrai fame."
Mentre Luigi parlava Lidio ha già sistemato il vassoietto sul tavolo e si è allontanato. Osservo la scena finché Luigi si volta e segue Lidio fuori dalla porta.
"Oggi non ci sarò" mi dice " ho delle faccende da sbrigare. Cerca di riposarti, perché poi riprenderemo il nostro discorsetto." Dopodiché si allontana, chiudendo la porta alle sue spalle.
Mi siedo e cerco di mangiare qualcosa, anche se ho lo stomaco sottosopra. Quei due idioti devono avermi dato della morfina. Mi sento davvero male.
Passo le ore successive a continuare la mia camminata su e giù per la stanza, concedendomi ogni tanto piccole soste per non affaticarmi troppo.
"Devo ricordare cazzo. Devo ricordarmi chi sono, dove mi trovo. Devo trovare il modo di uscire da qui e fargliela pagare a quel bastardo. Pensa Matteo, pensa cazzo!"
Ed è mentre sto cercando di togliermi da questa situazione che sento la chiave aprire la pesante porta.
È Lidio ad entrare. A quanto pare Luigi non è ancora tornato.
"Ti porto dell'acqua e una bella notizia. Luigi mi ha chiamato adesso. Sta tornando e tra mezz'ora sarà qui" poi sorride "qualche ultimo desiderio?"
"Si" gli rispondo "mi piacerebbe sapere chi sei te e perché ce l'hai tanto con me".
Mi guarda.
Poi abbassa lo sguardo, come fa chi deve riflettere un momento per scegliere le parole giuste da dire.
"Sai" mi dice "se devo essere sincero quando ti ho visto per la prima volta non avrei mai pensato cosa sarebbe successo. Insomma, eri solo un ragazzo come tanti. Ma poi ho capito tutto. Tu hai solo finto, fin dall'inizio. Sei entrato in casa mia prendendoci per il culo fin dall'inizio e quello che è peggio è che ti sei servito di mia figlia"
Poi fa una pausa, singhiozzando appena, e ricomincia a parlare.
"L'hai presa in giro, fin dall'inizio e ti sei servito di lei solo per arrivare a me".
Si avvicina a me, fino a trovarci faccia a faccia.
"E poi, quando non ti è servita più, l'hai uccisa, come tutti gli altri. Hai dato fuoco a quella maledetta casa per fare meno fatica e ucciderci tutti in un colpo solo"
Poi si allontana, continuando a parlare.
"Se sono vivo è solo grazie a Luigi, che aveva capito dove si trovava il tuo nascondiglio. È passato di là ed è riuscito a liberarmi prima che bruciassi vivo. Per gli altri, per tutti gli altri era già troppo tardi.
Grazie alle sue conoscenze è riuscito ad infiltrarmi nel suo nucleo operativo.
Ufficialmente io ho traslocato con tutta la mia famiglia. La mia famiglia che ora, in realtà è sotto tre metri buoni di terra!"
Adesso la sua voce si è fatta rabbiosa. Qualche lacrima inizia a solcare il suo viso.
"La mia CLoe. La mia piccola Cloe.."
E mi colpisce. Un pugno violento, come a voler scaricare tanta rabbia che porta dentro.
Come dargli torto?
Poi esce dalla stanza e rimango da solo per non so quanto tempo.
Non so se Luigi è tornato. Non so nemmeno che ore sono né quanto tempo è passato, ma da come mi sento immagino sia ora di riposare.
Provo quindi ad addormentarmi, nonostante quella maledetta luce. inizialmente mi sdraio semplicemente nel letto, poi provo con il cuscino sulla faccia. Alla fine mi rendo conto che l'unico modo è provare a stare sotto al letto, anche se non è proprio il massimo della comodità.
E infatti desisto e ritorno sopra, dove passo buona parte di quella che credo sia la notte a contemplare il soffitto.
Cloe.
Cloe.
CLoe.
Questo nome continua a risuonarmi nella testa. è come un piccolo campanello d'allarme.
Cloe.
Chi è?
cosa è?
Poi mi guardo intorno. Sono in mezzo ad un campo arato. La terra nuda sotto i piedi scalzi. La sensazione è piacevole. Comincio a camminare cercando una probabile uscita da quel campo e arrivo in una zona dove la terra è più asciutta. Continuo a camminare. Ora la terra è sempre più secca. Mano a mano che cammino si fa sempre più arida, fino scottare. Ora la sensazione è sgradevole.
Inizio a correre, cercando di scappare da quel calore insopportabile ma più corro e più la terra si fa bollente. Non posso e non voglio tornare indietro, ci deve essere un modo per uscire di qua.
Quando ecco che, finalmente, sento il rumore di un corso d'acqua. Smetto di correre e mi avvicino al piccolo ruscello, limitandomi ad osservarlo. Il solo guardarlo mi fa stare bene e non ho nemmeno bisogno di bere o bagnarmi per sentirmi meglio.
Decido quindi di camminare a fianco del rigolo d'acqua per vedere dove mi porta.
Poco a poco si fa sempre più grande, fino a diventare un vero e proprio corso d'acqua. Cammino fino ad arrivare ad un laghetto, dalle cui acque si erge una creatura meravigliosa che si avvicina a me.
La sua voce è pacata, rassicurante.
Chiudo gli occhi per un secondo e quando gli riapro mi trovo davanti una persona. Siamo di fronte una casa e stiamo parlando sottovoce.
Il suo bacio è qualcosa che mi prende l'anima. Di colpo smetto di pensare ed ogni preoccupazione sparisce. La stringo forte a me, chiedendole se vuole restare.
Entriamo in casa che ci stiamo ancora baciando e iniziamo a spogliarci reciprocamente, preoccupandoci sempre di tenere le nostre labbra il più vicino possibile.
La sua pelle ora tocca la mia, i nostri corpi si fondono a formare un'unica essenza profumata, una melodia perfetta ed unica. I muscoli che si muovono insieme, ritmicamente.
Il respiro che diventa tutt'uno, le sue unghie graffiano la mia schiena, io che mordo il suo collo e le sue spalle, stringendola a me come a non voler lasciarla mai.
All'improvviso il letto sotto di me cede ed inizio a cadere nel vuoto. Mentre cadiamo ci teniamo per mano per non rischiare di perderci. Ora la sua voce melodiosa si è fatta grido. Le sue note armoniose sono un accozzaglia di suoni acuti quasi fastidiosi. Mentre cadiamo acquistiamo sempre più velocità e il vuoto sembra non finire mai. La stringo forte a me, per paura di perderla ma i suoi vestiti, i suoi capelli, la sua faccia, la sua pelle vanno a fuoco e sono costretto a lasciarla andare.
Lei mi guarda, gli occhi increduli mentre mi osserva allontanarmi. Poi osserva le sue stesse mani infuocate e lancia un orrendo urlo di dolore, così forte da costringermi a tapparmi le orecchie con le mani, inutilmente.
Mi risveglio urlando e portandomi a sedere sul letto.
Il respiro è affannoso, sono completamente sudato.
Ignorando il dolore al petto ed alla gamba mi alzo e vado fino al tavolo. Mi accendo una schifosa sigaretta e bevo qualche sorso d'acqua, cercando di riprendermi.
Poi, ripreso fiato, inizio a piangere.
"Ora.." dico fra le lacrime "ora ricordo tutto.."
"CLOOOOOOOOEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE"
Urlo.
Gli occhi al cielo, disteso sulla sedia, con le lacrime che colano, una dopo l'altra, fino alla nuca e poi verso il pavimento. Sono tante e sembrano non finire mai, come fossero riuscite finalmente ad abbandonare la fortezza di rabbia e dolore che le ha trattenute sino ad ora.
Passo la nottata a camminare su e giù per la stanza, rimuginando.
Ho voglia di dar fuoco a qualcosa, di tagliuzzare, di mangiare carne, di rompere qualcosa.
Scatto verso il tavolino, alzandolo di peso e lo lancio contro la parete. Un isto di rabbia e disperazione si impadronisce di me.
“Perché?” mi domando.
“come ho fatto a trovarli? Come ci sono arrivato? Come ho conosciuto Cloe?”
Troppi interrogativi, non riesco a pensare lucidamente.
La frustrazione si impadronisce di me e non riesco a mettere a fuoco i ricordi. Fuoco. Perché continuo a pensarci? Ad a che fare con tutta questa storia?
Domande, domande, domande.
Troppe, inutili.
Non ho le risposte, almeno per ora. Piccoli sprazzi di memoria mi inondano i pensieri, suoni, immagini, persone che non riconosco nell'immediato.
Dolore. Profondo, eccessivo. Raccolgo il tavolo e mi siedo, le mani tra i capelli, i gomiti appoggiati al tavolo.
Porto indietro la testa, guardo il soffitto con aria pensierosa.
Alzo il sopracciglio.
Le mani serrate sui bordi del tavolino.
Colpisco con forza il ripiano, incrinando quel debole compensato da quattro soldi. Mi risveglio la mattina dopo o, almeno, credo sia mattina, visto che Lidio entra per portarmi la colazione, seguito da Luigi.
Mi alzo dalla sedia mezzo intontito e mi avvicino a Lidio.
Sbadiglio. Ho la faccia intorpidita per aver passato la notte sul tavolo.
Mi alzo in piedi.
Mi piego sulle ginocchia, lentamente, come a voler riprendere fiato, e mi alzo di scatto colpendo con un pugno il vassoio e rovesciando la tazza di caffè bollente in faccia a Lidio per poi allungare un piede verso lo stomaco di Luigi, seguito da un pugno in modalità stella cadente sulla sua faccia, mentre è piegato a causa del colpo appena ricevuto, facendolo cadere rovinosamente a terra.
Mi volto verso Lidio che sta ancora toccandosi la faccia per colpirlo in volto ed esco velocemente chiudendo la porta alle mie spalle e sedendomi a terra per riprendere fiato.
Devo smetterla con questi sforzi, non sono più un ragazzino.
La particolarità di questa porta è che non può essere aperta dall'interno. Non c'è serratura né maniglia. Per questo entravano sempre in due, uno doveva controllare che la porta non si chiudesse. Quando l'ho progettata non mi sarei mai sognato di entrarci dentro per portare il cibo alle mie vittime. Mi sono sempre limitato ad aprire la porta, per poi uscire dietro le sbarre.
Si, perché ho anche progettato una seconda porta, fatta di sbarre d'acciaio, alla moda delle prigioni vecchio stile. Anche qui la chiusura è simile. La porta non ha la maniglia ma in compenso ha la serratura e quindi può essere aperta anche da dentro.
Con le relative chiavi, ovviamente.
Le chiavi che ha Luigi.
Lo sento che urla da dentro la stanza.
"Sei un idiota Matteo!
Ci hai condannati tutti, maledetto pazzo fottuto".
"Siamo già tutti condannati" gli rispondo.
Poi è silenzio. Dopo un paio di minuti è Lidio a prendere la parola.
"Perché lo hai fatto? così moriremo tutti e tre. Che senso ha?"
"Non ha senso" gli rispondo "proprio come la storia che ti ha raccontato Luigi".
"Che vuoi dire?" mi chiede.
Mi alzo e mi avvicino al tubo che porta aria alla stanza. Lo colpisco, rompendolo, ed inizio a parlare lì dentro.
"Mi sentite adesso? bene, allora ascoltate.
Lidio, ragiona, perché Luigi è riuscito a salvare solo te? come mai non eri insieme alla tua famiglia ma in una stanza, da solo?"
"Come fai a sapere che ero da solo?" mi chiede.
"Perché so dove erano gli altri, e tu non c'eri" gli rispondo.
"Ma cosa stai..?"
"Zitto. E ascolta. Io non posso aver dato fuoco alla casa, per il semplice motivo che quella sera ero a casa dell'assassino di mio padre e mio fratello. Non posso essere stato io perché ero a casa di Luigi!"
"Tutte cazzate" prende la parola Luigi, rialzandosi a fatica da terra "non ascoltarlo, sta solo cercando di fotterti il cervello"
"che motivo avrei, coglione, visto che tanto stiamo per morire tutti e tre. A che servirebbe mentire ora, che scopo avrebbe?
Io non sto mentendo e tu lo sai bene, visto che sei stato tu a dar fuoco alla casa, bastardo!
Sei tu che li hai uccisi tutti, io mai e poi mai lo avrei fatto, soprattutto dopo aver trovato Cloe!"
"Cosa c'entra mia figlia, adesso?" urla Lidio.
"Non ci arrivi Lidio?
Io amavo tua figlia, ed è solo per merito suo se non avevo ancora ucciso nessuno. Da prima volevo semplicemente uccidervi tutti ma non ero sicuro di volerlo fare. Poi, per non mentirle, le ho detto tutta la verità e lei.. beh.. ha deciso di aiutarmi. Sai come si dice, no?
nella BUONA E NELLA CATTIVA SORTE!"
"Ma cosa stai dicendo bastardo, come ti permetti di infangare così il nome di mia figlia, tu non devi nemmeno nominarla, assassino!
Ma cosa vuoi ancora da me, si può sapere?"
"Voglio che tu guardi in faccia la realtà e che tu riconosca le colpe della morte di tua figlia, della tua famiglia, dei tuoi amici al vero assassino e a colui che è riuscito a costruire una storia credibile contando sulla mia infermità mentale e sulla tua stupida, cieca riconoscenza per averti salvato dopo aver cercato di ucciderti, convincendoti che fossi stato io!
ecco cosa voglio!"
"Ma allora.."
"Si Lidio."
La mia voce si fa rabbiosa.
"A dar fuoco alla casa è stato Luigi. Sapeva della mia storia con tua figlia perché mentre voi vi accusavate a vicenda lui si preoccupava di capire chi ci fosse dietro a tutte quelle sparizioni e dopo avermi trovato ha capito di essere arrivato alla fine dell'arcobaleno. Io ero l'assassino e avrei ucciso tutti voi, lui sarebbe arrivato al momento opportuno per uccidere me e poi si sarebbe goduto tutti i soldi. Ma poi ha scoperto che io non avevo ucciso nessuno e probabilmente ha preso le ultime informazioni che gli servivano da Cloe, prima di ucciderla, bruciandola viva insieme a tutta la tua famiglia e agli altri, dando fuoco alla casa dove li tenevo nascosti."
Faccio una piccola pausa e cerco di calmarmi, riprendendo a parlare normalmente.
"Ho anche una buona notizia per te. Tua moglie e tuo figlio non sono morti.
Sono al sicuro. Cloe ha raccontato tutto a tua moglie che è sparita senza lasciare tracce dopo aver compreso la tua vera natura. Cloe non l'ha seguita perché ha detto che voleva rimanermi vicino, per impedirmi di fare qualcosa di orrendo, più orrendo di quello che già non avevo fatto. Vuoi sapere come faccio a ricordarmi tutto?
È bastato che tu pronunciassi il suo nome. Il mio cervello si rifiutava di ricordare tutto questo. Il dolore è così intenso che non riesco a spiegartelo. è come trovarsi in un fiume in piena. Un turbinio di pensieri, un insieme confuso di sensazioni incomprensibili. È qualcosa di allucinato, psichedelico ed incredibilmente doloroso."
Luigi inizia a ridere.
"Complimenti, davvero una bella storiella. Ora, se hai finito con i tuoi deliri, perché non cerchi un modo per tirarci fuori?" Mi dice.
"Vuoi la prova che non mento?
Che davvero mi ricordo ogni cosa?
Guarda sotto il letto, ci sono tre mattonelle più grandi. Solleva quella di sinistra.
ATTENTO! quella di sinistra ho detto.."
Mi volto verso la porta a specchio e vedo Lidio a sinistra della stanza che osserva Luigi andare sotto il lettino, sollevare la mattonella e tirar fuori due sacchi.
"Aprili. Lì c'è parte del vostro bottino. Una buona parte è nascosto in un altro posto e il resto l'ho speso."
"Ma non farmi ridere, li hai trovati per caso e hai montato una storiella ad hoc per convincere Lidio a mettersi contro di me" mi dice.
"Già.. potrebbe essere. Ma allora come farei a sapere che nella sbarra d'angolo alla mia sinistra ci sono le chiavi di scorta per uscire da qua, se non avessi recuperato la memoria?"
Detto questo spengo la luce dentro la stanza, in modo che possano vedermi, e mi avvio verso la sbarra. La smuovo da terra svitandola come una semplice vite gigante e la abbasso, facendo scorrere l'estremità più bassa dentro il foro nel pavimento, appositamente scavato. Poi, muovo leggermente l'asta facendo entrare l'estremità più alta in un piccolo foro sul soffitto, quel tanto che basta perché riesca a "fare manovra" con la sbarra. Un volta tolta dal suo posto la porto in posizione orizzontale, e sollevo la parte che mi interessa. L'estremità in fondo.
"Vedi? Qua c'è la chiave.”
Tolgo la pellicola trasparente e tiro fuori un piccolo pacchetto. Lo srotolo e dentro c'è la chiave per aprire le sbarre.
Sento qualcuno urlare e dei rumori, come se si stessero picchiando. Poi due colpi di pistola, seguiti da alcuni secondi di silenzio.
Decido che forse è il momento di riaccendere la luce e vedo Lidio respirare affannosamente. È di profilo rispetto a me e sta osservando il corpo esanime di Luigi sdraiato a terra.
"Tu.. lurido assassino!" urla, e spara ancora un paio di colpi. Poi lo osserva, come per accettarsi che sia morto e si avvia lentamente verso il letto. Si siede, portandosi le mani fra i capelli ed inizia a piangere.
Apro la porta della cella e, per prima cosa, prendo dell'acqua dal tavolo. La tv è accesa, stanno passando il meteo. Sembra che pioverà.
Lidio mi chiama dal tubo, vuole parlarmi.
Mi avvicino.
"Ti ascolto" gli dico.
"Ascolta Matteo. Per tutti questi hanno Luigi mi aveva convinto che fossi tu l'assassino. Non ho fatto altro che accrescere il mio odio verso di te incolpandoti di quello che era successo e non ho fatto altro che desiderare la tua morte fra atroci dolori. Sono anche venuto al tuo processo. Mi ero truccato per fare in modo che tu non mi riconoscessi e per un momento ho addirittura creduto che avessi capito chi ero. Non so se ti ricordi, ma ti dissi anche chiaramente che ti avrei ucciso.
Tutto quello che volevo era solo uccidere l'assassino di mia figlia. E stavo per sbagliare persona..
Per fortuna non ho dato retta a quel bastardo e non ti ho ucciso. Adesso capisco la sua insistenza. Avrebbe voluto ucciderti subito. Preferiva aver perso tutti i soldi piuttosto che far scoprire la verità."
Poi fa una pausa e riprende a parlare.
"Sono costretto a ringraziarti, per avermi aperto gli occhi". Mi dice.
"Lascia perdere.” Gli rispondo. “Anzi che in questi giorni stavo progettando di ucciderti.
Ti ricordi del tatuaggio che ho sulla mano?
Manca una lettera, la L appunto. Lo so perché in ospedale Luigi mi chiamò Kharal e quella è l'unica lettera che manca in uno di questi cerchietti. E te ti chiami Lidio.
Ma in realtà quello spazietto era indirizzato a Luigi. Fortuna per te che me ne sono ricordato.
Ho creato una punta per ogni persona che ha rovinato la mia vita. Sai, ogni punta ha tre lati. Io ho dedicato queste punte a mia madre, mio padre e mio fratello.
Mentre i cerchietti sono perché è una metafora del cerchio della vita, ma non voglio annoiarti con paranoie filosofiche.
Ti basti sapere che il cerchio centrale era dedicato a Luigi. Hakdim ho voluto metterlo sulla stella più alta, come segno di rispetto per essere stato il primo ad essere catturato.
Ma di questo abbiamo già parlato.
Senti, adesso esco e chiamo qualcuno. Fra qualche ora sarai fuori, racconta quello che vuoi alla polizia, tanto non mi troveranno. Quando arrivano dì loro di premere questa mattonella". Gli dico, spostando un mobiletto e indicandogli col piede una mattonellina verde.
"Serve ad aprire la porta da fuori. Le chiavi delle sbarre le lascio qui sopra."
"No, lascia perdere. Non chiamare nessuno. Preferisco rimanere qua." Mi risponde.
"Sei sicuro?
Non è proprio il massimo come villaggio vacanze."
Sorride.
"Non preoccuparti, ci rimarrò giusto il tempo di trovare il coraggio di usare questa" mi dice, agitando la pistola.
Non c'è nient'altro da dire.
Gli auguro buona permanenza e mi avvio verso l'uscita. Ma prima di uscire calpesto la mattonella, azionando il meccanismo che apre la pesante porta della piccola prigione.
"Almeno, se ci ripensi, puoi sempre provare ad uscirne vivo." Gli dico.
Apro la piccola porta e percorro un corridoio di circa due metri che mi porta dentro il salone. Salgo le scale ed entro nella prima camera per fare quello di cui ho sentito più la mancanza in questi giorni:
una bella doccia.
I vestiti per cambiarsi non mancano e, una volta pronto, preparo una valigia con dentro l'essenziale per viaggiare e due sacchi di bigliettoni che erano nascosti sotto questo letto, legati alla rete. Giusto per le spesucce.
Le scale sono un problema. Adesso che mi sono rilassato il muscolo della gamba inizia a farmi male, così devo farle passo passo, con la valigia al seguito che batte ad ogni scalino.
pam.
pam.
pam.
Uno dopo l'altro.
pam.
pam.
pam.
Pow!. Mi fermo.
Buon viaggio Lidio. Se vedi Cloe dalle un bacio da parte mia.
Arrivato alla porta di casa rovisto nella giacca di Luigi.
Trovo le chiavi di casa, della macchina e la pistola, furbescamente lasciata sul tavolino d'ingresso.
"A me piacerebbe sapere come ha fatto a diventare poliziotto quello là.." penso.
Apro la porta ed esco.
L'aria ha un sapore buono, fresco, pulito.
La faccio entrare a pieni polmoni, mentre una pioggerellina leggera mi inumidisce la faccia.
È piacevole.
Chiudo gli occhi, cercando imprimere nella mente quell'attimo di pace meravigliosa che sento dentro.
Ma solo per un momento, per poi tornare alla dura realtà.
Cloe.
Tutto questo non servirà a niente, non ridarà la vita a te o agli altri. Anche se erano dei bastardi non meritavano di finire così, per mano di un altro poi. Me lo insegnasti tu.
"Se fai del male a chi lo ha fatto a te non sei migliore di loro ma solo peggiore, perché mentre il loro male può essere non intenzionale il tuo è premeditato e quindi sei una persona più orribile di quanto non lo siano loro."
Ricordo ancora queste parole. Chissà, magari le hai lette da qualche parte o davvero sono uscite dal tuo animo così gentile, anche verso chi non lo meritava.
Quello che più mi ha sorpreso è stato quando mi hai accettato nonostante quello che facessi. Mi hai veramente sorpreso.
Chissà se riuscirò ad andare avanti senza di te, o se anche io cercherò, forse invano, di raggiungerti come ha fatto tuo padre.
E mi incammino verso la macchina pensando che, in fondo, non dovrei chiedermi come finirà, visto che io lo so già.
Mentre scrivo le mie ultime righe mi trovo in una stanza d'albergo. È passata una settimana da quando ho lasciato la mia prigione, per riuscire a trovarne solo una più grande. Durante il viaggio mi sono spesso domandato cosa è la libertà. Si, perché a pensarci bene, la libertà, è un concetto strano. Puoi essere libero nel corpo ma non nella mente oppure il contrario e, in tutti e due i casi, sei sempre solo un prigioniero.
Comunque.
Adesso farò l'unica cosa che mi è possibile. Poserò la penna e aspetterò. Aspetterò che qualcuno legga quello che ho scritto, la mia storia, e decida se davvero io sono il mostro o se lo erano loro. O se il vero mostro altri non è che Luigi. E sarà quello il momento in cui tutti saranno vendicati. Mio padre, mio fratello, Cloe e tutti gli altri.
Chissà cosa starà facendo Massimo adesso. Non vi ho ancora parlato di lui, vero?!
Beh, mi dispiace ma non lo farò adesso. In fondo ha ben poco a che vedere con tutta questa storia.
Anzi, non c'entra assolutamente niente, quindi dimenticatelo.
Adesso scusate, ma devo decidere se e come continuare ad andare avanti e cosa fare della mia vita.
Capitolo 13
epilogo.
bang.
risveglio
Buio.
Un fottuto buio che ti impedisce anche di pensare.
La prima cosa che ho visto appena ho aperto gli occhi mi ha spaventato. Intorno a me c'erano troppe persone, vestite di bianco. Un'unica persona era vestita in maniera differente e solo tempo dopo ho capito chi fosse.
Tutto quel rumore, quegli strumenti, il sangue. Tutta quella maledetta luce.
Ricordo ben poco di tutto quello che è successo quella notte ma un paio di cose che mi ricordo benissimo sono il rumore e la luce.
Un rumore non ben definito, un'accozzaglia di voci, suoni, del battito del mio cuore ed una luce fastidiosa, abbagliante, che fa male agli occhi.
Tutte quelle fottute mani che ti toccano, che ti tengono fermo, che cercano qualcosa.
Solo dopo qualche giorno avrei capito che in realtà quella sarebbe stata la mia nascita o, più precisamente, la rinascita.
Esatto: rinato.
Non ricordo niente prima di questo. Niente.
La mia vita ha inizio in questa ambulanza: apro gli occhi e vedo i medici affannarsi su di me, la luce diretta negli occhi, quella maledetta sirena accesa, gli sballottamenti continui e tutti quei legacci del cazzo che mi impediscono i movimenti.
Quello che si dice “alzarsi con il piede sbagliato”.
Ripiombo nel buio e quando riapro gli occhi vedo un soffitto bianco che scorre velocemente dall'alto in basso. Intorno altre persone, mi stanno portando chissà dove ma questo non mi interessa. La prima cosa che mi viene in mente di fare è alzarmi e riesco a farlo.
I medici si spaventano, come non si aspettassero una cosa del genere e fermano la corsa del lettino cercando di sdraiarmi. Dico cercano perché uno di loro scatta prendendomi il braccio e premendomi sul petto, dolcemente, per sdraiarmi e, come risposta, ottiene un pugno in faccia. Ma forse è uno sforzo eccessivo che avrei potuto evitare. La vista, infatti, mi si offusca e sento il dolore alla mano, la osservo e vedo il sangue sul palmo, fra le dita, sul braccio, sulla maglietta e sui pantaloni. Sono pieno di fottuto sangue. La cosa che non capisco è perché mi fa male la mano mentre nel resto del corpo non sento niente.
Mi passano nella testa mille pensieri:
chi sono, perché sono qui, che mi è successo, chi sono queste persone, sono diventato paraplegico, no perché sono seduto sul lettino e riesco bene o male a muovere le gambe, a scalciare, mentre gli altri medici mi tengono fermo per legarmi al lettino. Già, non ve lo avevo detto, mentre stavo pensando a tutto questo (subito dopo il pugno in faccia al medico) tutti gli altri mi si sono fiondati addosso e mi hanno immobilizzato. Credo di averne colpiti un altro paio, ma senza ottenere niente.
Di nuovo il buio. Il fottuto buio.
E silenzio. Troppo silenzio.
Un sussulto e apro gli occhi di scatto, come se mi risvegliassi da un incubo. Non ricordo subito cosa è successo. Piano piano ricollego quello che è successo e avanzo un ipotesi su dove mi trovo: in ospedale.
Poi mi prendo in giro da solo dicendomi che sono di una perspicacia stratosferica.
La vista si abitua poco a poco alla luce e riesco finalmente a guardarmi intorno. Macchinari generici, flebo, altre lettini. Una grande finestra da dove entra una luce calda. Ne sono sicuro perché sento i raggi del sole scaldarmi dolcemente le gambe.
Fuori deve essere una bella giornata. Sento pochi rumori, tuttavia gradevoli, come il cinguettio di chissà quali volatili, fuori, le macchine in lontananza.
Qui c'è silenzio.
Pace.
Non credo di essere qua per una fottuta vacanza. Cerco di riprendermi ma sono intontito. La sensazione che provo è come quella di risvegliarsi in un prato dopo essermi strafatto di anfetamine durante un concerto psichedelico. Ho in bocca una strano sapore, non riesco a capire di cosa si tratta e vorrei tanto avere qualcosa da mordere.
Mi sento la mandibola debole e voglio togliermi questo saporaccio di cane bagnato dalla bocca.
Cerco di capire perché sono lì ma non ricordo niente. L'unica cosa che capisco è che ho una mascherina fastidiosa sul viso, penso per aiutarmi a respirare. Faccio per toglierla ma mi accorgo di avere una mano legata alla sbarra del letto. Ho delle fottute manette che mi tengono legato al letto.
“Ma che cazzo ho combinato?”
La mia voce risuona in quella maledetta mascherina e quasi mi spaventa. La tolgo con l'altra mano e mi tiro su, a sedere sul letto.
Queste coperte hanno un fastidioso odore di “nuovo”, di “pulito disinfettato” che trovo molto sgradevole. Le scosto e mi ritrovo ad osservare le mie gambe, il mio corpo.
Indosso delle mutande nere e una maglietta XL bianca. Non ho proprio un fisico da palestrato ma non mi posso lamentare. Osservo il mio corpo per la prima volta.
Le mie mani sono rugose, sembrano mani da manovale o cose così, ma non ho calli.
Le mie gambe sono grosse, muscolose e con delle cicatrici. Sembrano fori.
Non credo siano collegate a quello che mi è successo, sembrano vecchie di anni.
Alzo la maglietta e scopro di avere un fisico niente male, dopotutto. Chissà se faccio qualche sport.
Ma l'unica cosa che ottengo a pensare al motivo per cui sono lì, o a chi sono io, è un mal di testa e un po' di nausea.
Chiudo gli occhi, cercando di non pensare, per riuscire a farmi passare il mal di testa e vedere di capire cosa sta succedendo ed intanto entra qualcuno nella stanza. Non so chi sono ne perché mi trovo lì ma una cosa è certa: non voglio far vedere che ho ripreso i sensi, per ora.
Si avvicina qualcuno, sento il suo profumo precederlo, anzi, precederla. È una ragazza. E che ragazza. Sento i suoi tacchi bassi battere lentamente ed in un modo così leggero sul pavimento che rimango come ipnotizzato da quel ritmo così dolce, subito interrotto dal pesante passo di un uomo. Il suo odore è fastidioso. Si tratta certamente di uno schifoso dopobarba da due soldi, buttato abbondantemente sul volto e sul collo, per risparmiare sul profumo e darsi un aria da macho.
La voce dell'uomo risuona nella mia testa come il motore di una merdosa macchina vecchio modello che non vuol sapere di partire. È la classica voce roca da sbirro ligio alle regole, senza iniziativa personale. Le uniche cose intelligenti che riesce a dire sono una domanda su come sto e una considerazione sulla bella giornata che è fuori, dopodiché si avvia verso la porta “per non disturbare”.
La ragazza odia quell'uomo. E non crediate che sia una specie di indovino. Semplicemente quando si allontana lei si lascia scappare un “era ora che ti togliessi di torno”.
Poi si rivolge a me chiedendomi come mi sento.
La mascherina, accidenti.
Ho dimenticato di rimetterla.
Apro gli occhi, e il suo sorriso è una cosa così bella da farmi dimenticare tutto. La prima cosa bella che mi sia capitata da quando sono nato per la seconda volta.
Mi gira intorno, controllando che sia tutto a posto e cambia la flebo. Mi concede anche una specie di paternale sul fatto che non avrei dovuto togliermi la mascherina o muovermi su e giù per il letto. Le dico che mi sento bene e ho fatto tutto lentamente, cercando di non sforzarmi o esagerare.
Ovviamente sto mentendo. E credo lo sappia anche lei perché mi guarda come si guarda un bambino sporco di cioccolata che dice di non sapere niente sulla nutella sparita dall'armadietto.
Cambio argomento e le chiedo se sa perché sono lì ma come risposta ottengo solo un “mi dispiace, io sono qui solo per controllare come stai”. Le faccio qualche domanda di carattere generale, del tipo che giorno è oggi, che ora sono, dove ci troviamo e cose così, per vedere se riesco a collegare qualcosa.
Ma ottengo solo di riempirmi la testa di cose inutili.
Inoltre la mia voce è bassa, affannosa e ho la bocca che sembra piena di colla. Non so in che stato posso avere la faccia ma di certo non sono un bello spettacolo. Dopo poche domande mi sembra di aver corso per mezz'ora.
Dopo che ha finito di fare il suo lavoro va ad informare il poliziotto fuori dalla stanza che mi sono ripreso e mentre si allontana non posso fare a meno di notare il suo bel sedere, oltre a quel corpo snello e a quell'aria da donna di mondo, più che da infermiera.
Prima di uscire si volta facendomi l'occhiolino e augurandomi buona fortuna.
Arrossisco e balbetto qualcosa.
Cavolo, che pretendete?! Non me lo aspettavo..
Gran bella femmina. Ah, si chiama Silvia.
Entra lo sbirro. Tronfio, vanesio, quasi come fosse felice di avermi lì e il merito fosse tutto suo. Il merito di cosa, poi, non si capisce.
Mi guarda sorridendo a denti stretti e mi dice
”finalmente ti sei ripreso, bastardo”
Nei suoi occhi scorgo come una luce strana, ma in quel momento non ci faccio caso. I miei pensieri sono ancora focalizzati sulla bella infermiera e lui mi riporta alla realtà bruscamente.
Rimango come pietrificato a quella sottospecie di domanda e ruoto gli occhi intorno, come si fa quando si cerca una risposta e l'unica cosa che mi viene in mente é “si..buongiorno anche a te, amico. Sai dirmi perché sono qua o comunque cosa ho combinato?”
Subito dopo mi accorgo che avrei fatto meglio a starmene zitto o, almeno, l'impressione è stata questa, vedendo la faccia che ha fatto il poliziotto alle mie parole.
“Ah, e così il bell'addormentato non si ricorda niente, adesso.
Cos'è speri di cavartela facendo finta di non ricordarti niente ed ottenere l'infermità mentale? A che gioco stai giocano kharal?”
“kharal?”
“si, kharal! O vuoi far finta di non ricordarti nemmeno il tuo nome d'arte? Preferisci essere chiamato con il tuo nome vero?”
“forse non ci siamo capiti bombolo. Io non so chi sono, non so cosa cazzo ci faccio qui, non so chi sei te e posso dirti, in assoluta franchezza, che non me ne fotte una beata minchia”
Il poliziotto ora mi guarda come fossi un bastardo della peggior specie e stringe i pugni. Brutto segno. Cala il silenzio per alcuni secondo e poi gli chiedo se può spiegarmi cosa è successo. Per favore.
Mi osserva per una manciata di secondi. Sembra spaesato e ha la faccia di uno che vorrebbe urlare ma può solo accontentarsi di starsene in silenzio.
Solo ora mi accorgo che i lettini intorno a me sono vuoti. Non c'è nessuno.
Mentre ci penso guardo in basso e scorgo dei segni sulle mie mani. Ho una cicatrice sulla mano destra, che prende tutto il palmo. Sembra una ferita da taglio. Mentre sulla sinistra ho una specie di stella gigante sul dorso. E dei tagli sui polsi.
Mentre sono impegnato ad osservare le mie braccia il tizio ricomincia a parlare. Mi chiede se veramente non mi ricordo niente.
Io scuoto il capo e lo osservo.
“niente” rispondo.
Forse il mio sguardo o forse i milioni di esami per confermarlo che mi hanno fatto dopo lo hanno convinto, ma una cosa è certa, non ne era felice. O, almeno, così mi è parso di capire quando mi ha detto:
“non so dirti se questo è un dono o una condanna per te, ma se vuoi un consiglio prega che non ti torni mai la memoria”
Rimango perplesso e mi vengono in mente sempre più domande, oltre a quelle che già mi stavo facendo prima, ma alla fine ne faccio solo una, chiedendogli chi è.
“Un poliziotto” risponde. Mi spiega brevemente che lui è quello che mi dava la caccia.
Gli chiedo perché e lui risponde semplicemente
“perché sei un assassino. Ma non un assassino normale, no. Un fottuto pazzo che si diverte ad infierire sulle vittime, che le tortura, le fa a pezzi e si compiace di tutto questo.”
Ci penso un po, guardandolo in modo strano, poi mi metto a ridere, chiedendogli se è una candid camera ma ottengo semplicemente un “no.” secco, duro, fastidioso. Proprio come il suo dopobarba.
Uno sbirro puzzolente, una dolce infermiera e il fatto che sono un pazzo furioso. È tutto quello che so della mia vita, oltre al fatto che sono ammanettato ad un letto di ospedale.
Ed solo il mio primo giorno.
Capitolo 2
assassino
Mentre valuto la mia posizione ecco che il tizio ricomincia a parlare elencandomi quelli che sono i miei diritti mai io, ormai, non l'ascolto più. Sto ancora pensando a cosa ci faccio lì, a cosa posso aver mai fatto, al sangue, a tutto quel sangue che ricordo di essermi visto addosso.
I giorni successivi li passo da una clinica all'altra, parlando con psicologi di dubbia fama e facendo analisi per vedere il mio stato psichico o qualcosa del genere.
Tutte cose di cui avrei volentieri fatto a meno.
Scopro di chiamarmi Matteo Arghetti, 24 anni, consulente finanziario, killer seriale. O, almeno, questo è quello che mi dicono. Il mio nome non mi dice niente. È il classico nome da sfigatino che passa la vita sotto i libri o davanti al computer a infastidire ragazze in chat.
Se devo essere sincero odio il mio nome.
Il mio angelo custode si chiama Luigi Palandro. È una specie di detective, ha affermato di darmi la caccia da diversi anni e di essere quello che potremmo considerare la mia controparte, il mio peggior nemico /amico. Ha 35 anni suonati ma è maledettamente in gamba o, almeno, così mi pare di capire dalla storia che mi ha raccontato.
In breve mi ha fatto capire come è riuscito a catturarmi:
era sulle mie traccie da parecchio tempo, come già detto, ed è riuscito a capire la zona dove si trovava il mio “rifugio”. Il luogo dove portavo le mie vittime. “Quali vittime?” gli chiedo, in uno dei nostri colloqui. “quelle che non sono riuscito a salvare” risponde lui.
Non c'è che dire, un vero eroe con il senso del dovere.
Poi mi fa un elenco sommario:
Roberto Massimi e coniuge Martina Borghi, Alessio Cinga, Elena Pirati e coniuge Alessandro Bongiu, Saadia Haled, coniuge Hakdim Mohammed Bel Azim e figli Hamed e Bhilaa e l'ultima vittima che sei riuscito a portarmi via quando ti ho preso: Kiara Misetti.
Mi indica una catasta di fascicoli vicino a me. “guardali” mi dice.
Apro uno ad uno i fascicoli, lentamente e guardandolo negli occhi ogni tanto. Quello che vedo non mi provoca emozioni, a parte forse dei leggeri rivoltamenti di stomaco. Gli chiedo se sono davvero io quel pazzo fottuto che può aver fatto una cosa del genere a queste persone. A delle donne poi e, soprattutto, a dei ragazzi appena maggiorenni ed ottengo un ovvia risposta “si”.
Gli chiedo perché ho fatto tutto questo e come risposta ottengo queste parole:
“questo devi dircelo tu. Io non ho idea di cosa ti passi in quel cervello malato”.
Purtroppo però, di risposte io non ne ho e lui lo sa bene. I medici hanno detto che la botta in testa è stata molto forte e l'ipotermia non mi ha giovato.
Ah, giusto, non vi ho raccontato cosa è successo.
Novembre 2009, mi trovavo nel mio rifugio, una casa in montagna abbandonata da tempo dai precedenti proprietari in cui io avevo trovato il modo di entrare. Niente di strano, mi serviva qualcosa utile allo scopo e dopo varie ricerche ero riuscito a trovare questa casa, secondo la ricostruzione dello sbirro.
Tra marzo 2005 e novembre 2009 avevo compiuto 10 omicidi. Quello forse la giuria avrebbe potuto “perdonarmelo” ma sicuramente non sarebbe loro andato giù il fatto che io avessi infierito sui corpi, torturando quei poveracci fino allo stremo. Dai rilevamenti è venuto fuori che io non torturavo soltanto, ma addirittura curavo le mie vittime. Per non farle morire subito, per “giocare” il più possibile con loro.
“Giocare? Come mai questa parola? Non è un po macabra?” chiedo allo sbirro. Ma lui si limita a sorridere a denti stretti e mi dice che il modo in cui hanno ritrovato i corpi lascia supporre queste parole.
Poi continua, raccontandomi come è riuscito a prendermi.
Dopo lunghe ricerche era riuscito a capire chi fossi, anche grazie a dei piccoli errori da parte mia. Che volete, dopo 4 anni uno qualche piccola cazzata può farla.
Stavo andando a “lavorare” e, per fare prima, avevo preso l'autostrada. All'uscita mi sono trovato di fronte una squadra al completo di poliziotti che controllavano chi entrava ma soprattutto chi usciva. Anche il grande capo era lì, a controllare che fosse tutto in ordine.
Non ero particolarmente agitato, non era la prima volta che succedeva ed ero sempre riuscito a cavarmela tranquillamente. E ci sarei riuscito anche questa volta, se un piccolo errore da parte mia non mi avesse fatto scoprire. Nella fretta, infatti, mi ero messo la felpa al contrario. Non me ne ero reso conto, a quanto pare.
“Un genio del crimine..” mi prendo in giro da solo.
I poliziotti, non appena mi hanno visto, mi hanno chiesto cosa diavolo ci facevo in giro con una felpa al contrario e, purtroppo, prendendomi alla sprovvista, non ho saputo dire qualcosa di decente.
Mi hanno quindi intimato di uscire dalla macchina per un alcool test.
Niente di preoccupante, stavo uscendo per sottopormi a qualsiasi cosa volessero ma successe una cosa che non avevo previsto, causata da un mio errore di valutazione. Si, avevo valutato male quanto fossero strette le corde. La tipa era riuscita a liberarsi e, tolto il nastro adesivo, iniziò ad urlare come fosse pagata per farlo.
Senza farmi prendere dal panico (a detto dello sbirro) ho preso la testa del poliziotto che avevo di fronte e l'ho stampata sul cofano. Mi sono impossessato della sua pistola e dopo aver sparato a due poliziotti sono rientrato di corsa in macchina e sono partito a razzo.
“Sono morti?” chiedo.
“No, li hai solo feriti. Da quello che ricordo non sembrava che avessi intenzione di ucciderli”.
Poi mi sono venuti tutti dietro ed è stato l'inferno. Ogni tanto spuntava fuori qualche macchina nuova e l'elicottero mi stava alle calcagna, illuminandomi a giorno. Nessuno faceva economia di proiettili e questo lo dimostra anche lo stato in cui sono stati trovati i muri degli edifici lungo la strada, il giorno dopo. Guardo le foto che mi passa. Erano talmente crivellate di proiettili che se mettevi i numeri sopra ogni punto e poi li univi veniva sicuramente fuori qualcosa di interessante.
Lo sbirro continua il suo racconto e mi dice che in qualche modo sono riuscito a far ribaltare la prima macchina degli inseguitori, riuscendo a guadagnare tempo. La mia folle corsa è finita qualche km più avanti, quando mi sono infilato con la macchina in un sentiero per capre e, dopo aver percorso si e no un centinaio di metri, mi sono fermato.
“Qui non ho idea di cosa possa essere successo ma secondo la ricostruzione ecco come è andata”
Sono sceso dalla macchina, ho aperto il bagagliaio, la donna mi ha colpito e ha iniziato a correre, ma senza andare lontana. Io infatti, l'avrei raggiunta, per farla letteralmente a pezzi.
“Come sarebbe? Non le ho sparato? E poi io non sono quello che le tortura le vittime?”
“Si, è così. Ma avevi poco tempo, eravamo sulle tue tracce. No, non hai usato la pistola.
Ad essere sinceri non hai usato nessuna arma convenzionale, ti sei limitato a, come posso dire, sbranarla. Come un cane randagio”
“sb.. sbranarla?”
“si, esatto, a sbranarla.
Hai fatto a pezzi quella povera donna semplicemente con le mani e i denti”.
È troppo. Chiudo i fascicoli e li spingo via. Mi appoggio con i gomiti sul tavolo, la testa fra le mani, come a schiacciarla, gli occhi stretti in un morsa, come a cercare di risvegliarsi da un brutto sogno.
“Non posso credere di aver fatto questo, non posso”
“beh, credici, perché è quello che hai fatto”
“ma come avete fatto a prendermi?” domando.
Mi spiega che dopo aver ucciso la donna ho iniziato a correre nel bosco e mi sono fermato molto più avanti credendomi al sicuro. In breve mi sono ritrovato circondato da poliziotti e, cercando di scappare, sono inciampato chissà dove, ruzzolando giù, in discesa, fino a finire dentro un laghetto.
Chiedo che ne sarà di me, ma in cuor mio lo so già. “Andrai davanti ad un tribunale e loro decideranno cosa fare. Io la mia parte l'ho già fatta.”
E rimaniamo così, ad osservarci, per alcuni minuti. Poi lui si alza e fa per andarsene, ma prima che esca dalla stanza gli chiedo se sa qualcosa di quel segno a forma di stella che ho sulla mano sinistra.
“È un tatuaggio” mi risponde.
Gli faccio presente che ho problemi di memoria, non che sono coglione.
“So bene che è un tatuaggio, ma cosa rappresenta?”
“Non ne ho idea”. E se ne va, chiudendo la porta alle sue spalle.
Capitolo 3
processo
I giorni seguenti sono solo una perdita di tempo. Mi hanno riservato una cella personale perché sono convinti, dicono, che non ci si possa fidare di me e che potrei fare chissà cosa. In sostanza hanno paura che faccia del male agli altri detenuti o che possa tentare di evadere. Nell'ora d'aria sono sempre scortato da quattro poliziotti che mi tengono i fucili puntati contro. Gli altri detenuti non sembrano infastiditi da me, anzi, sono sicuro che più di uno vorrebbe farmi la pelle per via di quei ragazzini appena maggiorenni che ho ucciso. Purtroppo non so nemmeno se sono stato io a farlo, ma posso dire che sono d'accordo con loro. Quale malato figlio di puttana farebbe quello che ho fatto io?
Ho ascoltato le varie deposizioni, le ricostruzioni dei fatti, quello che ho fatto a quei poveracci. Come mi disse Luigi a me non bastava ucciderli, no, dovevo infierire sui loro corpi, torturarli, farli letteralmente a pezzi.
Durante il processo i vari medici e i poliziotti che hanno fatto i rilevamenti si sono dilungati spesso sullo stato in cui hanno trovato i corpi e, purtroppo, c'erano anche i parenti delle vittime, che spesso correvano fuori per andare a vomitare o perché non ne potevano più di rivivere quello che avevano passato anni addietro, leggendo le notizie sul giornale.
I vari esperti criminologi intervenuti hanno descritto nei minimi particolari tutto quello che ho fatto, dal taglio di lembi di pelle alle falangi tagliate una alla volta. Hanno detto di aver trovato anche degli strani segni sulle gambe che solo dopo hanno capito di cosa si trattava: legavo delle gabbiette sulle gambe delle vittime dove dentro mettevo un animale, in prevalenza ratti, che poco a poco mangiavano la carne della vittima. Ero dedito anche all'uso dell'elettricità, dell'acqua bollente, dei ferri roventi e di tante altre cose che non riuscivo a credere di averle davvero fatte. A metà del processo mi sono tappato le orecchie per non ascoltare. Quando mi hanno chiamato a testimoniare non sapevo cosa dire e ho riempito il banco di referti medici in cui veniva spiegata la mia amnesia, la mia incapacità di ricordare. Mi sono scusato con la corte per non poter essere di aiuto, per non avere la possibilità di spiegare loro il mio insano gesto, sempre che un motivo ci fosse. Magari sono davvero semplicemente un malato mentale che ha ucciso senza un motivo apparente.
Non lo so, non so cosa pensare.
Alla domanda come si ritiene l'imputato ho risposto semplicemente: “non so nemmeno se Matteo è il mio vero nome. Ma se quello che ho fatto è vero allora mettetemi dentro e buttate via la chiave.”
La sentenza non è chiara.
Sono colpevole ma mi riconoscono l'infermità mentale, quindi per ora vado in galera e poi si vedrà. Uscire da lì non è facile. I parenti delle vittime urlano e scagliano ogni sorta di maledizione su di me. Sono sicuro che vorrebbero vedermi impiccato o cose del genere. Come dargli torto. Quello che ho fatto non ha nome e non può essere spiegato se non additandomi a mostro.
Mentre ripenso a queste parole ecco che dalla folla radunatasi intorno a me si protrae un uomo sulla quarantina che mi salta alla gola, subito placcato dagli agenti prima che riesca a raggiungermi. La situazione adesso si è fatta insostenibile.
Posso sentire distintamente i vari odori che ci sono, dal sudore degli agenti, impegnati in una lotta furibonda per salvare un pendaglio da forca come me da un sicuro linciaggio, al profumo abbondante di quella signora grassa sulla quarantina. Inoltre c'è un odore che non riesco a capire cosa è o da chi viene ma sono sicuro di conoscerlo. Quando lo sento, infatti, il mio corpo sembra, come dire, concentrarsi e ricercarlo. Mi alzo dritto sulla schiena, gli occhi attenti e mi metto ad annusare l'aria come fossi un animale. In quel momento non ci faccio nemmeno caso, tanto sono concentrato su quello strano odore che sembra avere un potere quasi ipnotico su di me.
Le voci delle persone che ho intorno sono un accozzaglia di suoni inutili che si fanno sempre più lontane, fino a spegnersi completamente, una dopo l'altra.
Tutti stanno spostando lo sguardo su di me, che sembro avere in mente qualcosa. I miei occhi sono come spiritati e mano a mano che tutti se ne accorgono si allontanano. Gli agenti adesso mi tengono sotto tiro. Non so che faccia posso aver mai fatto ma a giudicare dalle loro espressioni non credo di assomigliare ad un dolce peluche.
Un paio di stupide donne non reggono la tensione e svengono, un uomo urla “assassino, mostro!” ed io lo guardo, come si guarda qualcosa che non desta interesse. L'unica cosa che mi interessa è quell'odore.
Gli agenti decidono di immobilizzarmi ammanettandomi, per sentirsi più al sicuro ma gli manca il coraggio, così decido di aiutarli mettendomi le manette da solo ed intanto volgo lo sguardo alla piccola folla, cercando sempre di capire da dove proviene quel cazzo di profumo.
Senza rendermene conto mi sto innervosendo, i miei muscoli si tendono e se guardo le mie mani posso vedere distintamente il sangue pulsare nelle vene.
Poi lo vedo. È li, mi sta osservando. Non so come faccio a sapere che è lui quello che stavo cercando, ma lo so. Lo guardo e lui guarda me. Ci osserviamo per un tempo che pare infinito, poi le guardie mi intimano di camminare, ma non lo faccio subito. Resto li ancora qualche secondo e prima che decida di muovermi fa in tempo a dire qualcosa. La distanza mi impedisce di sentirlo ma posso distintamente leggere le sue labbra mentre dice queste esatte parole:
“ti ucciderò”
Sorrido. Ma non è un sorriso normale, no, è un sorriso da pazzo, di quelli che prendono solo la fila dei denti di sopra e vanno da orecchio ad orecchio, con la faccia inclinata verso il basso e gli occhi aperti come a guardare la propria preda in lontananza. Sento il sangue ribollirmi dentro e le mani farmi male e forse è proprio quel dolore a farmi tornare alla realtà. Mi riprendo e guardo le mie mani, leggermente insanguinate. Senza rendermene conto le avevo chiuse a pugno e avevo stretto talmente forte da conficcarmi le unghie nella carne. È come risvegliarsi da un sogno. Intorno tutti mi guardano come fossi un fenomeno da baraccone e dietro le guardie mi spingono per portarmi fuori da li.
Ed io mi incammino, verso la mia nuova vita.
Capitolo 4
la nuova vita
La vita in prigione non è proprio il massimo, ma almeno hai parecchio tempo per riflettere. Passo i primi tre mesi a domandarmi come possa essermi venuto in mente di fare quelle cose, perché l'odore di quell'uomo mi abbia provocato quelle reazioni e cercando di capire cosa significhi quel tatuaggio che ho sulla mano, sempre che un significato ce l'abbia e non sia solo un'inutile ornamento.
Il tatuaggio. All'improvviso mi torna in mente ed inizio ad osservarlo.
Guardandolo più da vicino mi rendo conto che, prima delle punte, ci sono dei piccoli cerchietti con delle lettere dentro “H” “A” “R” “A” “K” e un cerchietto vuoto al centro.
Osservo la mia mano tenendo il pollice rivolto verso il petto. Leggendole partendo dall'alto e ruotando verso destra la frase completa è khara. Ripenso a come mi ha chiamato lo sbirro: kharal.
Cosa significa? Che vuol dire? Perché questo nome assurdo?
Ci penso fino a farmi esplodere la testa e, appena decido di smettere, ecco che un immagine mi appare nella mente, un fottuto flashback:
È notte. Davanti a me Luigi che mi guarda. Sta urlando qualcosa ma io non lo ascolto, sono troppo impegnato a guardarmi intorno e a pensare a cosa fare. Le gambe mi fanno male, ho corso troppo. Mi manca il fiato, il cuore mi sta martellando la testa TUM TUM TUM TUM intorno a me cani che abbaiano, tutti che urlano, spari, TUM TUM TUM TUM TUM TUM, in bocca uno strano sapore, lo riconosco, è sangue TUM TUM TUM guardo la pistola in mano, è scarica TUM TUM TUM lo sbirro mi urla di arrendermi e mi chiede chi sono e perché sono pieno di sangue.
TUM
lo guardo negli occhi, apro la bocca per prendere fiato e glielo dico: “il mio nome è Kharal”
poi inizio una corsa impazzita sfuggendo chissà come ai suoi proiettili TUM TUM TUM TUM TUM TUM TUM TUM il mio piede si ferma
TUM
il mondo inizia a girare intorno a me, vorticosamente TUM TUM sento l'odore della terra in bocca, il dolore su tutto il corpo TUM sto rotolando TUM sento le mie ossa scricchiolare, i miei muscoli appiattirsi su erba, sassi, piccoli tronchi TUM.
Un ultimo schianto e il freddo, pungente. Acqua TUM l'acqua mi riempe la bocca, il naso, gli occhi TUM TUM TUM non riesco a respirare, non capisco dove sono TUM TUM TUM non riesco a vedere
TUM
Ritorno alla realtà lanciando un urlo al cielo, spremendomi la testa come un limone. Mi accascio a terra, in ginocchio, gli occhi sbarrati e la bava alla bocca. Sento il mio cuore impazzire nel petto e i muscoli tendersi fino allo spasmo.
Poi è solo buio. E silenzio.
Il risveglio non è dei migliori ma non mi posso lamentare. Sono in infermeria.
Ovviamente mi hanno ammanettato al letto e da come mi sento posso benissimo capire che mi hanno strafatto di anestetico. Mentre sto pensando se lo hanno fatto perché hanno paura di me o perché ne avevo davvero bisogno ecco che si avvicina un tizio e controlla come sto.
Un paio di discorsi senza senso e poi si rivolge a me dicendo che in giornata potrò tornare in cella.
Sai che culo.
Esco da lì giusto in tempo per il pranzo. Ancora intontito mi avvio verso la mensa per trovare qualcosa con cui riempirmi lo stomaco e qui succede qualcosa di maledettamente curioso. Mentre sono in fila mi si avvicina un tizio che mi dice qualcosa a proposito di un codice della prigione, per cui chi fa male a donne o ragazzini finisce male.
Io non ricordo bene come è andata, ma quando mi rendo conto di quello che sta succedendo il tipo è sdraiato su un tavolo e sta urlando di dolore. In isolamento uno degli sbirri mi ha raccontato la scena:
Mi sono voltato verso Rudy (così si chiama) e gli ho sorriso, dicendogli che una paternale da un avanzo di galera come lui non l'accetto, dopodiché mi sono avvicinato a lui, che ha cercato di colpirmi. Se non lo avesse fatto probabilmente sarebbe andata in maniera diversa. Fatto sta che l'ho schivato, l'ho colpito un paio di volte, l'ho preso per i capelli e gli ho stampato la faccia su un tavolino. Sarebbe finita lì, ma ha pensato bene di rialzarsi e, mentre ero distratto dalle guardie che si stavano facendo largo fra gli altri detenuti, ha cercato di infilarmi una forchetta nella schiena.
Gli è andata male e gli ho spezzato il braccio, poi, per evitare che si muovesse, gli ho piantato la forchetta in un orecchio, inchiodandolo al tavolo.
Ho come la sensazione che questa me la faranno pagare cara.
Ripenso a come ho fatto a fare una cosa del genere. Mi è venuta quasi spontanea, come fossi abituato a fare certe cose. E la facilità con cui ho spezzato quel braccio, come se niente fosse. Certo, questo lo devo alle mie braccia, così forti. Ma se poi inizio a pensare che sono così perché sono uno schifoso assassino mi prende la disperazione e quindi evito di farlo.
Mi concedo una risata, quindi, ripensando a quel poveraccio che avrebbe fatto meglio a farsi gli affari suoi e chiudo gli occhi per cercare di riposare.
C'è silenzio qui.
Se la vita in carcere è strana, in isolamento è surreale.
L'unico contatto che ho con il mondo esterno sono le nuvole che vedo passare in cielo dalla finestrella in cima alla stanza. Le pareti sono imbottite, il letto è senza coperte e il bagno altro non che un buco in un angolo della stanza, coperto solo da un muretto (imbottito anche quello) che copre quanto basta.
L'unico modo che hai per passare il tempo è passeggiare in giro per stanza e parlare con la telecamera, ammesso che tu abbia qualcosa da raccontare. Io infatti posso solo raccontare quello che mi è successo negli ultimi tre mesi e, in ogni caso, oltre che non destare interesse, quello che ho da dire è decisamente inutile, visto che chi è dietro la telecamera non può sentirmi.
Una volta scontata la mia “punizione” finalmente mi fanno uscire da li.
Uscire in cortile, durante l'ora d'aria, è quanto di più bello possa immaginare. L'aria mi entra dentro a pieni polmoni, il sole mi scalda la faccia e mi acceca per qualche secondo, tempo nel quale io rimango come stregato da tanta bellezza, per poi abituarmi alla luce e tornare prepotentemente alla realtà osservando chi e cosa ho intorno.
Gli altri detenuti, mura altissime, giallognole, il rumore del traffico fuori e l'odore di selciato cotto al sole, misto a fumo di sigarette e dopobarba.
Dopo l'episodio in mensa nessuno ha provato più ad avvicinarsi a me, anche a causa della stretta sorveglianza che i poliziotti mi riservano. Sorveglianza a dir poco inutile, visto che io nemmeno so chi sono e tutto quello che faccio è frutto della mia vita precedente.
Ma ripensandoci, nemmeno io mi lascerei incustodito. Non mi lamento, perché in fondo mi piace stare da solo. Quello che non mi va giù e che non abbia nessuno con cui parlare, anche solo per scambiare due chiacchere sul tempo.
Capitolo 5
speranza
Trascorro li dentro almeno 5 anni. Anni che scorrono in un modo così lento da farmi perdere il conto dei giorni.
Giorni che ormai passo allenandomi continuamente, anche in cella. Non so perché lo faccio, ma è un ottimo modo per passare il tempo e per mantenermi in forma. Oltre a questo leggo spesso quei pochi libri che ci passano dalla “biblioteca” per evitare che mi si atrofizzi il cervello. Grazie a quest'ultima cosa e al fatto che faccio il bravo bambino mi guadagno anche una leggera fiducia da parte degli sbirri che mi tengono costantemente d'occhio.
Durante questi anni scopro chi ero e cosa facevo come persona normale anche, e soprattutto, grazie a Luigi che viene a trovarmi almeno una volta al mese, quando deve passare dal carcere per motivi suoi. Non mi vergogno ad ammettere che mi piacciono molto le sue visite. Grazie a lui, infatti, ogni volta scopro qualcosa di nuovo della mia vita precedente e sugli sviluppi del mio caso. Sembra infatti che abbiano deciso di farmi uscire, nonostante quello che ho fatto, perché dichiarato ufficialmente infermo mentale.
“Davvero pensi che qualcuno abbia intenzione di farmi uscire da qui?”
“Non lo so. Potrebbe essere. In fondo ormai non sei più un pericolo per nessuno, anzi, sei tu in pericolo.”
“Le famiglie delle vittime, eh?!”
“Esatto. Più di una persona vorrebbe vederti morto.”
“Non li posso biasimare..”
Mi informa anche che ci sono delle condizioni, in caso io venga davvero rilasciato e gli chiedo quali siano. Ogni mese devo fare almeno due sedute da uno psicologo ed eventualmente fare uso di psicofarmaci, in caso sia ritenuto necessario, ed ogni tre mesi devo sottopormi ad un esame completo, come quelli che mi hanno fatto durante il processo. Inoltre per i primi tre anni devo accontentarmi di starmene ai domiciliari.
Ci penso qualche secondo, poi mi viene in mente un particolare non del tutto trascurabile e mi rivolgo a Luigi:
“c'è solo un piccolo problema. Che io sappia non ho una casa ne qualcuno che voglia tenermi con se. Non so se ho dei genitori o dei parenti in genere ma dubito che vorranno ospitarmi. E se mai avrò degli amici sono sicuro che faranno finta di non conoscermi.”
“Ne sei sicuro?”
“Andiamo Luigi, chi vuoi che faccia dormire in casa propria qualcuno accusato di 10 omicidi premeditati che rapisce le vittime per torturarle?”
“In effetti.. Comunque di questo non devi preoccuparti. Dei parenti li hai e sono disposti a tenerti con loro. Anzi, sono stati loro a chiedere se potevano riconsiderare il tuo caso, visto che ormai sei solo un guscio vuoto.”
Continua a parlare per chissà quanto tempo, di quello che ho fatto, di quanto sia orribile e di come abbia cercato di redimermi scrivendo ai parenti delle vittime, dopo le mie scuse solenni fatte durante un'intervista. Mi parla di come io sia cambiato e di come nemmeno lui che mi ha dato la caccia per 4 anni mi riconosca più.
“Non so più se considerarti come nemico o come semplice conoscente ormai. Quello che è certo è che non sembri più in grado di far del male a qualcuno.”
Lo osservo mentre mi parla. I suoi occhi sono sinceri, ed io mi sento ancora più in colpa ripensando a quello che ho fatto e a quanto l'ho fatto soffrire uccidendo quelle persone mentre mi dava la caccia.
Poi si alza e fa per andarsene, anche per questo mese la mia “pausa dialogo” è finita. Prima di andarsene però, si volta, e mi dice che anche lui ha appoggiato la richiesta di scarcerazione. Rimango perplesso per alcuni secondi e poi gli chiedo perché.
“sai, da quando ti ho catturato le giornate sono così noiose.. preferisco saperti a piede libero, almeno ho qualcosa per cui preoccuparmi”. Poi sorride, mi fa l'occhiolino ed esce dalla stanza.
Io rimango lì per altri due minuti, in cui il mio unico pensiero è rivolto alle sue parole. Poi inizio a ridere come se mi avessero raccontato una barzelletta, fino a quando non vengono a prendermi per riportarmi in cella, ad attendere la risposta della richiesta di scarcerazione.
Capitolo 6
un nuovo giorno
Indosso i pantaloni nuovi e la maglietta che mi hanno portato in questi giorni i miei “parenti”.
Infilo gli stivali neri e sistemo i capelli. Sono emozionato.
I secondini aprono la cella e mi portano a sbrigare delle piccole formalità, prima di accompagnarmi all'uscita.
I pesanti cancelli si aprono davanti a me, con un suono metallico e stridulo.
Il sole mi batte in faccia con prepotenza e osservo quel mondo che fino ad ora mi era nascosto. Guardo le macchine passare, gli alberi, le case intorno e mi sembra tutto così nuovo, diverso e bellissimo. Un cane mi passa vicino, scodinzolando.
Vedo li vicino una macchina parcheggiata in seconda fila con davanti una persona che mi osserva. Alzo la mano e lui ricambia, quindi mi avvicino sicuro che stia aspettando me. Si presenta, poche parole. Scopro di trovarmi di fronte a mio zio.
Ci sono mille domande che vorrei fargli ma adesso l'unica cosa che voglio è allontanarmi da quel posto e lasciarmi tutto alle spalle. Monto in macchina e quando partiamo sorrido. Finalmente ha inizio la mia vita. La mia nuova vita da persona libera.
Mentre viaggiamo mi guardo intorno, per me tutto è nuovo, in questa città. Non so nemmeno se sono nato qui o da un altra parte.
Dopo qualche minuto di silenzio che io ho passato guardando fuori dal finestrino, scrutando ogni cosa, che ai miei occhi appare così bella nella sua semplicità, mio zio rompe il silenzio chiedendomi come si sta in carcere.
Io mi volto, lo guardo alcuni secondi e poi mi stringo sulle spalle “il caffè non lo sanno fare”.
Mio zio rimane inizialmente perplesso, poi sorride e mi chiede se quello che dicono i giornali è vero, se davvero ho perso la memoria e non ricordo niente della mia vita precedente.
“cosa mi rispondi se ti dico che non ho nemmeno idea di chi sia tu?”.
Mi guarda.
“chissà.. forse è meglio così”.
Gli chiedo cosa significa questa risposta ma ottengo solo un “niente, non preoccuparti”.
Poi riprende a parlare dando una risposta a delle domande che non osavo fare. Mi spiega che hanno richiesto la mia scarcerazione solo perché mi conoscono bene e sanno che non farei mai del male a qualcuno della mia famiglia e perché è in grado di darmi un lavoro, cosa che nessuno farebbe mai, con un ex detenuto ai domiciliari, accusato di omicidio plurimo, premeditato, con aggravanti di percorso (o qualcosa del genere).
Non appena smette di parlare mi volto per guardare fuori, appoggiandomi al sedile. Mentre tutto scorre, la fuori, penso a come sarà la mia nuova vita. Ringrazio mio zio e chiudo gli occhi, cercando di reprimere quel senso di colpa che non riesco a togliermi di dosso, per aver fatto del male a delle persone innocenti. E resto così, per tutto il viaggio.
Arriviamo a destinazione che ancora il giorno non è finito. Scendo dalla macchina e mi viene incontro un piccolo cane.
“non c'è nessuno?” domando.
“no, sono tutti a lavoro. Vieni, ti faccio vedere dove puoi stare”.
Mi accompagna in una dependance, collocata subito accanto alla casa principale e ricavata da una costruzione che c'era prima. La casa è una colonica molto bella, di quelle che usano ancora nelle campagne e da questo capisco subito in cosa consisterà il mio lavoro. Mio zio infatti ha un azienda di famiglia, che produce olio e olivi e il mio compito sarà quello di aiutarlo nei campi.
Entro in quella che sarà la mia nuova casa. L'impressione che ho entrando è piacevole. La casetta è molto accogliente. Il salotto è di colore chiaro, con un divanetto a due posti. C'è una piccola televisione, di tutto rispetto, collocata in mezzo ad un mobiletto marroncino, di quelli che è possibile riempire di cose. Accanto c'è una porta da cui si accede nella cucina e di sopra una camera con bagno.
“questa sarà la tua nuova casa” mi dice.
“mi piace” rispondo.
E poi continua dicendomi che nelle condizioni per essere “libero” c'è anche da aggiungere che ogni sera lui deve chiudermi dentro. Roba da giudici. Gli dico che non c'è nessun problema e che, per quanto possibile, cercherò di dare fastidio meno possibile.
“nessun fastidio, non preoccuparti”.
Quelle parole risuonano nella mia testa come una voce di speranza e danno sollievo alla mia anima.
Dopodiché mi invita a sistemare i bagagli e a riposare, con la promessa di tornare più tardi, dopo aver sbrigato delle commissioni, per presentarmi il resto della famiglia.
L'unico bagaglio che ho è un giacchetto comprato quando ero in carcere. Lo butto sopra al divano e mi avvio verso la cucina, per prepararmi un caffè.
Mentre lo bevo mi accendo una sigaretta e cerco di abituarmi a tutto questo. Dopo 5 anni passati in carcere ritrovarsi in un posto così grande, silenzioso e senza nessuno a cui obbedire ti fa sentire spaesato e un po fuori posto.
Accendo la tv e aspetto il ritorno di quell'uomo che dice di essere mio zio, ma di cui io non riesco nemmeno a ricordare il nome.
C'è silenzio qui, ma qualcosa mi urla dentro, impedendomi di rilassare il mio corpo stanco e la mia mente, tormentata da mille pensieri.
Faccio quindi una cosa che volevo fare da molto tempo. Prendo una seggiola dal soggiorno e vado fuori, sistemandomi al sole. Il piccolo cane mi si avvicina e rimane a farmi compagnia, dopo aver ricevuto in cambio un piccolo compenso un paio di carezze.
Inizia la mia nuova vita.
Capitolo 7
La cena
A cena l'atmosfera non è delle migliori.
Intorno a me persone che dicono di essere miei parenti ma che io vedo e conosco per la prima volta.
Stranamente non hanno paura di me e, anzi, fanno di tutto per mettermi a mio agio constatando probabilmente quanto sia in imbarazzo in mezzo a loro.
Mi parlano, evidenziando quanto sia cresciuto, quanto sia cambiato, dall'ultima volta che mi hanno visto e dopo aver parlato a lungo di cose pressappoco inutili domando loro chi sia la mia famiglia.
“siamo noi la tua famiglia” mi risponde mio zio.
“no, intendo dire: chi sono i miei genitori? Dove sono? Ho fratelli o sorelle?”
E capisco dai loro sguardi che sono delle domande a cui nessuno vuol dare risposta. Tutti infatti si guardano negli occhi. Adesso c'è solo silenzio e i sorrisi si sono fatti da parte per serrare quelle labbra che sembrano voler dire mille cose ed invece se ne restano chiuse, come una diga, ad impedire che un fiume impetuoso possa trovare spazio per la sua corsa inarrestabile.
La più giovane si rivolge a me:
“davvero non ti ricordi niente'”
“no” rispondo io.
“nemmeno le cicatrici che porti sul corpo ti dicono niente?”
“no, mi dispiace. Tu ne sai qualcosa?”
Ma è una domanda a cui non potrà mai rispondere perché mio zio prende la parola, facendo presente che domattina dovremo alzarci presto, per andare al lavoro, ed invita tutti a finire di mangiare e ad andare a letto. Poi si rivolge a me, dicendomi che tutto mi verrà raccontato piano piano, per cercare di aiutare la mia mente a ricordare senza subire danni.
“ok” dico io. E poi mi rivolgo a tutti scusandomi per aver tirato fuori argomenti di cui, a quanto pare, è meglio non parlare.
“purtroppo non ricordo niente e la mia sete di sapere è solo indirizzata verso una conoscenza della mia vita precedente, per cercare di capire come mai possa essere diventato un mostro come quello che ero, se possa esserci un nesso fra le due cose e..”
Non faccio tempo a completare la frase che mio zio prende la parola:
“calmati Matteo. Nessuno sta puntando il dito contro di te. Sappiamo quello che hai fatto ma abbiamo capito che si trattava di un altra persona, che non ha niente a che vedere con quella che abbiamo di fronte adesso. Abbiamo deciso di aiutarti ed è quello che faremo. Abbiamo preso questa decisione e ti aiuteremo finché possiamo, nei limiti delle nostre possibilità.”
E dopo queste parole non c'è più niente da dire. Ringrazio tutti e chiedo il permesso di andare a dormire (vecchia abitudine da galeotto) e mi avvio verso la mia nuova casa.
Mio zio non viene subito a chiudermi dentro. Credo si fidi di me e non ho intenzione di dimostrargli che si sbaglia.
Esco a fumare una sigaretta prima di andare a dormire e ad osservare il cielo, rimanendo abbagliato da tanta bellezza. Mi sdraio in terra, a scrutare quel meraviglioso manto stellato, a respirare la fresca aria della sera che profuma di erba e ad ascoltare il rumore degli alberi che si muovono, leggeri, sospinti da un venticello che sembra portale sollievo a quella terra ancora calda del sole cocente di quel pomeriggio appena trascorso.
Finita la sigaretta mi avvio verso la mia stanza e provo l'ebrezza di dormire in un letto vero, con delle coperte pulite e comode.
La bocca mi si inarca in un sorriso e mi addormento così, pensando alla bontà di mio zio che è riuscito a dare fiducia anche ad un uomo come me.
Capitolo 8
vivere normalmente
Ed ecco qua la mia nuova vita. Tutte le mattine mi sveglio di buon'ora per andare nei campi a compiere lavoretti di bassa manovalanza come pulire i fossi, estirpare le erbacce, curare le piante togliendo rami secchi o inutili e ogni tanto mi concedo una pausa andando a pescare nel laghetto che rimane in fondo ai campi.
Adoro questa vita. Adoro sentire il sole scaldarmi ogni parte del mio corpo, portare gli occhiali da sole e passeggiare fra gli olivi, toccandoli ogni tanto per assicurarmi che non siano un miraggio. Mi piace sentire l'odore di terra umida e l'erba appiattirsi sotto le scarpe, il cinguettio degli uccelli, il vento in faccia, il rumore che fa il trattore e l'abbaiare del cane quando arriva il tizio che porta il pane.
Mi è capitato anche di parlarci. Ricordo che vedendomi per la prima volta mi chiese chi fossi.
Gli dissi la verità: sono un pluriomicida, quello che qualche anno fa è finito in televisione. Sa, quello che non ricorda niente.
Ricordo ancora la sua faccia pallida quando mi ha riconosciuto e la velocità con cui è scappato da me.
C'è di buono che non gli avevo ancora pagato il pane.
Mio zio pare felice di avermi lì con lui e gli altri lavoratori non sembrano infastiditi. Questo è piacevole, per me.
A volte parlo con loro e, per il resto del tempo, mi dedico esclusivamente al lavoro, senza risparmiarmi. Le colpe che devo scontare sono tante e a volte mi illudo di riuscirci lavorando sodo e comportandomi bene.
Forse questo non mi renderà migliore di fronte all'altissimo, ma almeno posso sperare di riuscire ad entrare in un bar senza che qualcuno mi riconosca provocando un fuggi fuggi generale.
E così procede la mia vita, per altri 2 anni, nei quali rimango sempre lo stesso smemorato, come evidenziato anche da quelle fottute analisi a cui mi sottopongono quei medici da quattro soldi periodicamente e senza sgarrare di un solo giorno.
Non sopporto più di andare a ripetere sempre le stesse cose e di sentirmi dire le solite parole ogni volta. Con mio zio non abbiamo più toccato l'argomento famiglia perché pare che debba prima aspettare di ricordare alcune cose da solo, o la mia mente potrebbe avere uno shock.
Stronzate per non dirmi la verità. Ma non posso biasimarlo. Fino ad ora si è rivelato una persona di buon cuore e voglio avere fiducia in lui.
C'è di buono che non sono più ai domiciliari. Rimangono tutte le altre limitazioni, tra cui quella di non poter disporre di passaporto e di non poter lasciare il paese, ma a me va bene così. Adesso posso permettermi di andare a passeggio in strada e questo mi rende molto felice.
Anche oggi è una giornata come le altre. Mi sveglio presto, bevo il mio caffè e poi mi dirigo nei campi, dove gli altri arriveranno solo fra qualche minuto, in tempo per usare il trattore, che mi preoccupo di accendere per scaldare il motore.
La giornata trascorre senza problemi e alle prime avvisaglie della sera ci preoccupiamo di rimettere tutto in ordine per andare ognuno a casa propria.
Dalla prima sera in casa di mio zio ho deciso che avrei fatto meglio, almeno per i primi tempi, a cucinarmi qualcosa da solo, anche per riabituarmi all'idea di poter mangiare con qualcuno accanto senza avere il timore che cerchi di pugnalarti mentre sei distratto. Oltre a questo c'è da sommare anche l'imbarazzo che provo nel cenare insieme a loro.
Mio zio ha capito e mi lascia mangiare nella casetta che ha allestito per me, senza serbarmi rancore. Anzi è che spesso mi trovo a passare del tempo con la figlia più piccola, Alessia. A quanto pare non ha timore nello stare con me e spesso mi accompagna a pescare. La più grande, Marica, sembra invece più restia nel concedermi confidenze, ma non posso dire che mi odi.
Sembra semplicemente imbarazzata a parlare con me e credo di capire il motivo. Vorrebbe parlarmi del mio passato, raccontarmi ogni cosa, ma sa che non può farlo e quindi preferisce non parlarmi, piuttosto che raccontarmi bugie o far finta di niente.
La sera, come ormai sto facendo già da tempo, esco senza nemmeno più preoccuparmi se le persone mi notano o meno. Sanno benissimo chi sono e si sono quasi abituati a vedermi ogni sera a camminare per le vie del centro.
Certo è che nessuno si azzarda a venirmi a parlare o a camminare da solo quando io sono nei paraggi, ma in fin dei conti nessuno mi infastidisce e io non ho dato modo di farmi odiare, più di quanto non lo sia già.
Finito il giro mi dirigo nell'unico pub dove posso entrare senza che tutti controllino ogni mia mossa e bevo la mia birra di fine giornata. Ricordo che quando ci sono venuto per la prima volta l'aria che si respirava qua dentro non era delle migliori ed era frequentato da spacciatori e gentaglia del genere. Era il luogo ideale per uno come me.
Adesso , con la nuova gestione, tutto è cambiato. Il nuovo proprietario ha pensato bene di dare una ripulita ai cessi e al locale in generale. Adesso può permettersi di chiamarli bagni e il locale mette musica carina, oltre a presentarsi meglio. Ha sistemato le luci, cambiato i biliardi e messo dei giochi in scatola.
Il balcone è sempre lo stesso pezzo di legno marcio ma almeno lo ha sistemato tinteggiandolo.
Sembra davvero nuovo. Anche io ho dato una mano per farlo tornare ai suoi antichi splendori un po' perché mi fa piacere darmi da fare, un po' perché odio sguazzare nella melma. Ricordo di avergli anche consigliato di sistemare un piccolo palco dove far suonare band di ragazzi in cerca di un ingaggio e, chissà perché, mi ha dato retta. Adesso il pub ha periodicamente musica dal vivo e questo non può che attirare più clienti. Mi aveva proposto di lavorare per lui, ma dopo avergli spiegato chi sono e le regole a cui devo sottostare ha convenuto con me che non sono la persona adatta a lavorare in un pub.
Stasera è occupato a servire dei ragazzini e io sono troppo stanco anche per parlare. La giornata è stata pesante e tutte le notti le passo a rigirarmi nel letto, tormentato da chissà quali incubi che la mattina non riesco a ricordarmi. Può darsi che siano stralci della mia vita precedente, che il mio cervello si rifiuta di assimilare perché sa cosa succederebbe se liberasse i fantasmi del passato o forse se lo immagina.
Tutti mi ripetono che va bene così, che è meglio che non ricordi, ma io voglio sapere. Voglio capire come mai ero, anzi, sono un mostro che uccide persone senza motivo, cosa ha scatenato in me questa cosa e se tutto ciò aveva un senso.
Mentre sono appoggiato al bancone impegnato a farmi venire il mal di testa si siede accanto a me una ragazza, che ordina tre cocktail e poi si volta verso di me. A mia volta indirizzo lo sguardo verso di lei e con mia grande sorpresa scopro di trovarmi davanti alla bella infermiera dell'ospedale: Silvia.
Mi sorride e agita la mano per salutare, nonostante siamo così vicini da poter parlare sottovoce. Sorrido a mia volta e ricambio il saluto con un breve cenno del capo.
Chiede come sto e senza nemmeno darmi il tempo di rispondere mi invita al suo tavolo. Io la guardo perplesso.
“non ricordi chi sono?”
“certo che lo ricordo. Sei tu che non ricordi chi sei” mi risponde.
E sorride, con quel sorriso dolce che per un momento dà sollievo alla mia anima tormentata. I suoi occhi sono bellissimi. Sono quel tipo di occhi grandi, vispi che hanno spesso le ragazze allegre. Per non parlare, poi, del suo fisico. Che gran pezzo di donna.
Mi fa cenno di seguirla. Scendo dallo sgabello e la seguo, portandomi dietro il boccale di birra. Mi invita a sedermi al tavolo e mi presenta i suoi amici. Una coppia di giovani da poco tornati da un viaggio in Inghilterra. Sono suoi amici e sono venuti qua a festeggiare il loro rientro con una bevuta.
Sto ancora cercando di capire come mai mi abbia invitato al tavolo, mentre lei mi presenta ai suoi amici e spiega loro in parole povere chi sono. Inizialmente li vedo cambiare espressione ma non colgo lo sdegno tipico di chi, solitamente, mi riconosce.
“è grazie a lui se il pub è migliorato” e poi si rivolge verso di me, fissandomi con i suoi occhioni chiari “io e mio padre non ti ringrazieremo mai abbastanza”.
Ecco svelato il mistero. È la figlia del barista. E io che mi credevo chissà cosa.
Rimaniamo buona parte della serata a parlare. Adoro farmi raccontare del loro viaggio in Inghilterra. Non so se ci sono mai stato ma starli a sentire, immaginando i posti che mi descrivono, è una bella sensazione.
Verso mezzanotte decido che è ora di tornare. Saluto tutti e mi avvio verso casa per riposare.
È stata una bella serata.
L'indomani mi sveglio fresco e riposato, segno che durante la notte sono riuscito a dormire senza che gli incubi me lo impedissero. Oggi è domenica, quindi non si lavora.
Passo buon parte della giornata in giro per il paese a osservare le bancarelle e a camminare in mezzo alla gente, che sembra non fare caso a me, tanta è la confusione nella piazza grande.
C'è un gran via vai di persone che passeggiano, bancarelle di ogni tipo con dietro commercianti che urlano di avere i prodotti migliori ai prezzi più bassi e
“OUCH!” un ragazzo mi atterra fra le braccia e subito dietro arriva una cascata d'acqua, probabilmente destinata a lui.
Il ragazzo è fradicio ed io con lui. Alzo lo sguardo e vedo un ragazzino con un secchio in mano che non riesce a parlare.
“hey, non preoccuparti, non è successo niente” gli dico, prima che cada a terra svenuto. Poi comincio a ridere e loro con me. Una piccola folla si raduna intorno e le risate si propagano per la piazza. Aiuto il ragazzo a rialzarsi e gli sussurro qualcosa all'orecchio.
“ok” mi dice. Ed insieme prendiamo di peso l'altro ragazzino.
“uno!”
“due!”
“TRE!”
ed il tonfo secco, nell'acqua della fontana in mezzo alla piazza. Il bambino mi guarda e ride sguaiatamente. Il suo amico si rialza e osserva i suoi vestiti completamente bagnati. Mi guarda ed esclama ”ora tocca a te!”. Rimango perplesso sul da farsi e prima che possa decidere come comportarmi mi rendo conto che è meglio andarsene. Qualcuno mi ha riconosciuto e la voce si sta diffondendo nella piazza. Posso sentire i mormorii delle persone intorno a me. Le risate si spengono poco a poco fino a scomparire e lasciare spazio solo al rumore del mercato in sottofondo e agli sguardi delle persone intorno a me.
“scusate ragazzi, il gioco è finito”
e mi avvio verso casa.
Dopo aver cenato mi metto a guardare un po di tv e, come tutte le sere, non c'è niente di interessante.
Ma non ho voglia di andare a dormire subito, così metto sul canale satellitare per guardarmi qualche soap opera o cose del genere.
Mi addormento quasi subito, più o meno alla seconda pubblicità.
Spesso faccio dei sogni e sono sempre più o meno gli stessi, ma stasera sogno qualcosa di diverso.
Sono in mare. Sento chiaramente il salmastro entrarmi nella gola e vedo l'acqua intorno a me. Ma c'è qualcosa che non va, non riesco a respirare. L'acqua mi sovrasta e vedo il mondo blu chiaro, con la luce che filtra dall'alto.
Sento i miei polmoni scoppiare e dalla mia bocca non entra aria..
aria..
ARIA!
Mi sveglio di soprassalto e mi rendo contro che qualcuno mi sta premendo qualcosa sulla faccia, del cotone imbevuto di qualcosa. L'odore è penetrante. Lo colpisco d'istinto alle costole con un pugno e riesco a liberarmi la faccia.
Respiro a pieni polmoni, pesantemente, come dopo una folle corsa. Il mio assassino si rialza, mi colpisce e mi si lancia addosso. Lo colpisco con un calcio ad una gamba e faccio in modo che atterri sulla vetrata del mobiletto della tv.
Devo ancora riprendere fiato, non riesco nemmeno a gridare aiuto. Lo guardo cercando di capire chi sia ma ha un passamontagna. Addosso non ha niente che possa aiutarmi a riconoscerlo. È vestito di nero, con dei jeans grigio scuri e un paio di guanti di pelle nera.
Intanto lui si rialza, borbotta qualcosa e si guarda intorno freneticamente.
Invece di saltarmi addosso torna indietro e prende una sedia, scagliandosi subito dopo contro di me, che do un calcio al poggiapiedi e riesco a fargli perdere l'equilibrio.
Cerco di approfittare della situazione e gli salto addosso, cercando di placcarlo stile rugby, ma faccio male i miei conti e ottengo solo di ricevere la sedia sulla schiena. Si dirige verso la cucina, forse intenzionato a cercare un'arma, ed infatti torna con l'unica cosa che può trovare nella casa di un ex serial killer: il coltello da pane.
Cerco di trattenermi dal ridere e fingo di essere svenuto. Appena si avvicina, intenzionato forse a dirmi qualcosa, lo colpisco alla gola dopo avergli immobilizzato il braccio con cui tiene “l'arma”. Lui indietreggia, visibilmente affaticato a respirare e dolorante. Io, mezzo intontito dal colpo appena ricevuto, cerco di rialzarmi mentre lui cerca di scappare.
Inizia così una folle corsa fuori dalla casa.
“un momento..” penso. “la porta è aperta?”
Ma non ho tempo per domandarmi cosa sia successo.
Piano piano tutti e due ci riprendiamo quasi completamente e la nostra corsa si fa sempre più frenetica, su per i colli, in mezzo agli olivi.
Posso sentire chiaramente il respiro del mio assassino mentre scappa da me, l'erba bagnata sotto i piedi e le gocce d'acqua sulle foglie che mi bagnano quando ci passo vicino. La notte è chiara ma senza luna. È difficile riuscire a vedere dove stiamo andando e spesso ci graffiamo strusciando addosso ai rami. I miei piedi affondano nelle terra umida e questo mi impedisce di raggiungere il mio aggressore. Riesce a distanziarmi di qualche metro, ma non abbastanza per invogliarmi a cedere.
La nostra folle corsa continua per diverse centinaia di metri, fino a quando le gambe non richiedono il giusto contributo di stanchezza. È visibilmente affaticato e questo mi permette di guadagnare qualche metro, ma è ancora troppo lontano perché possa prenderlo.
Con un ultimo sforzo riesco a lanciarmi verso di lui e a buttarlo a terra, prendendolo per le gambe.
Il sudore mi scende dalla fronte e respiro rumorosamente. Il mio aggressore è a terra, non credo possa riuscire a rialzarsi.
Anche lui è visibilmente affaticato ed il passamontagna non giova alla sua respirazione. Gattono verso di lui e lo volto verso di me, prendendolo per il colletto.
Gli strappo via quella sottospecie di maschera e con mia grande sorpresa riconosco in lui una persona che mai mi sarei aspettato di trovarmi davanti: Luigi.
Lo guardo sorpreso ed un po' sconvolto. Vorrei fargli mille domande ma la prima è senz'altro:
“perch...”
Non riesco a finire la parola che qualcosa, o qualcuno, mi colpisce alla testa. È un colpo duro, potente, tanto da farmi perdere i sensi.
Riprovo così qualcosa che ormai non sentivo da tempo, perdendomi nel buio.
Capitolo 9
l'inizio di un incubo
Sono confuso, stordito. Ma soprattutto sono legato ad una sedia.
Non riesco a mettere bene a fuoco le immagini o a capire bene quello che sta dicendo la persona che ho davanti. Apro la bocca per dire qualcosa, ma a quanto pare sbaglio le parole. Lo vedo trafficare per la stanza e tornare con del ferro arrotolato. No, non è ferro, è filo spinato. Lo avvolge intorno alle gambe e mi toglie le scarpe, per poi bagnarmi i piedi con dell'acqua. Non capisco il perché di tutto questo ma posso dire con assoluta certezza che le punte del filo spinato fanno un male cane. Le sento mentre premono sulle mie gambe, quel tanto che basta per sentire male.
Lo vedo allontanarsi per poi tornare con dei cavi da batteria. Mi dice qualcosa e poi attacca i morsetti ai miei alluci. Fa un male cane e non riesco a trattenere una smorfia di dolore.
Si allontana di nuovo e, arrivato al tavolo si volta a fissarmi. Collega uno dei due cavi ad una batteria e continua a fissarmi. Credo di capire cosa ha in mente e so già che non mi piacerà. Cerco di parlare ma riesco solo ad emettere qualche lamento. Lui mi fissa, continuando a chiedermi le solite cose, il solito ritornello “perché”, “perché” “perché”, “chi è stato” “ dove sono”.
Magari sapessi di cosa sta parlando.
Provo a rispondergli ma l'unico suono che esce dalla mia bocca è un rantolo più o meno udibile. Non riesco a parlare, sono intontito, probabilmente sono stato drogato. Ho i muscoli indolenziti e sento distintamente il sapore del sangue in bocca.
Lo vedo prendere in mano l'altro cavetto. Provo un ultima volta a parlare ma
“AAAH!”
prima che riesca a farlo una scarica elettrica mi passa dentro il corpo, costringendo ogni mio muscolo a contorcersi e a dimenarsi. Sobbalzo, il filo spinato penetra nelle gambe e il dolore si fa insopportabile. Toglie uno dei cavetti e di colpo il dolore sparisce, per poi ritornare immediatamente non appena ricollega i cavi.
“AAAAH!”
è qualcosa di così doloroso da non poter essere spiegato. Le punte del filo spinato sono penetrate nella carne ed ogni volta che ricollega i cavi è come se qualcuno mi stesse folgorando da dentro il corpo.
Dopo la quarta scarica inizio ad avere le convulsioni.
Il dolore è così insopportabile che non riesco nemmeno a trattenere le lacrime, che sgorgano copiose dai miei occhi. I denti stretti in una specie di sorriso macabro e le mani che tentano, invano, di liberarsi da quelle maledette corde. Nemmeno la sedia riesce più a trattenersi a terra e sussulta insieme a me ogni volta.
Finalmente è finita.
Cerco con tutte le forze di rimanere abbastanza lucido da capire quello che succede e, alzando lo sguardo, vedo mia madre che mi sorride.
“mamma?!” penso. Poi mi rendo conto di non essere più legato alla sedia e faccio per seguirla. Esce dalla stanza svoltando a destra ed io, senza sapere perché esco ma vado verso sinistra. Mi volto a guardarla e la vedo allontanarsi fino a diventare solo un'immagine sfocata.
Cammino lungo un corridoio umido, con molta luce. Una luce fastidiosa, abbagliante. Sento delle voci intorno a me. Qualcuno urla. Mi volto di scatto e vedo delle persone venirmi incontro. Inizio a correre per non farmi prendere.
Corro, fino a sentirmi male. Salto un cancello finendo dentro ad un giardino, mi arrampico sul portico e salgo fino al tetto, per poi scendere dalla parte opposta e saltare sul tetto dei vicini. Continuo a correre e mi lancio dentro una piscina, nuotando da parte a parte. Esco e ricomincio a correre fino ad arrivare in strada e proseguire verso quella enorme casa bianca in fondo alla città. Ho caldo e non riesco a muovermi bene. Sono impacciato. Arrivo dentro ad una stanza e vedo uno degli inseguitori puntare un fucile contro mio fratello.
L'uomo mi guarda, sorride malignamente e parla a mezza bocca, dicendomi “la birra si ricava dal malto d'orzo”.
Apro gli occhi, sgranandoli il più possibile, il respiro è affannoso.
Mi occorrono alcuni secondi per capire cosa è successo. La testa mi fa un male cane e mi fischiano le orecchie. Abbasso lo sguardo e scopro di essere legato ad una sedia, intorno a me dei muri senza intonaco, neri, pieni di ragnatele.
Appena gli occhi si abituano alla penombra mi rendo conto che sono in una casa abbandonata o in un garage di una qualche casa tenuta male. C'è polvere nell'aria, la sento entrare nei polmoni. E un odore di vecchiume, di legno umido e marcio.
Il pavimento è a mattonelline rosse, che si intravedono appena sotto il marciume nero che ricopre tutto.
“ma che cazz” dico a me stesso, evidenziando non poco stupore nel trovarmi in questa situazione.
Le domande principali a cui sto cercando di dare risposta sono semplici:
dove sono, perché sono lì e chi ci ha portato.
Ma soprattutto vorrei sapere perché Luigi ha cercato di uccidermi. Probabilmente mi ha portato qui con l'aiuto del suo complice, quello che mi ha tramortito.
Oppure, con la sfiga che ho, sono stato colpito dal ramo marcio di un olivo e lui mi ha trascinato qua da solo.
Scuoto la testa cercando di riprendermi. Mi fa un male cane.
Quello che mi da più fastidio di ogni altra cosa è il fatto di essere legato come un salame e di non potermi muovere. Ne avrei bisogno. Per fortuna riesco almeno ad allungare le gambe.
Il silenzio è innaturale. Non un rumore, niente. Probabilmente è giorno, altrimenti credo proprio che sentirei almeno zampettare dei topi. È il loro ambiente ideale.
Mi muovo in tutti i modi possibili, per cercare di liberarmi o, quantomeno, di provarci, ma ottengo solo di stancarmi.
L'unico cosa che posso fare, quindi, è aspettare quel figlio di puttana di Luigi e sentire cosa gli passa per la testa, a lui e a quello stronzo del suo amichetto che mi ha colpito alle spalle.
Devo comunque ricordarmi di ringraziarlo. Quella botta in testa è stato un toccasana. Ha mosso qualche rotella e gli ingranaggi hanno ripreso a funzionare. Sto iniziando a ricordare qualcosa.
Mentre cerco di mettere in ordine quel poco che mi ritorna in mente sgrano gli occhi, fissando il vuoto davanti a me e, senza che me ne renda conto, la bocca mi si inarca in un macabro sorriso.
Capitolo 10
verità
Sento dei rumori. Qualcuno sta camminando fuori dalla stanza.
Sento anche delle voci, ma in un modo che risultano solo dei suoni incomprensibili.
Come se qualcuno mugugnasse.
Ripensando a quello che è successo un dubbio si fa strada nella mia testa:
perché Luigi ha cercato di uccidermi?
Ma soprattutto:
perché mi ha rapito, portato in una casa abbandonata e legato come un salame?
Che ci sia qualche legame fra lui e una delle persone che ho ammazzato?
Se è così sono fottuto, immagino.
Mentre penso ai possibili motivi per cui mi trovo qui ecco che i chiavistelli della porta di muovono, aprendosi uno alla volta, lentamente. Il primo ad entrare è un uomo sulla quarantina (forse anche cinquantina). Ha una faccia che non mi dice niente, se non che ce l'ha con me.
Il secondo è quel figlio di buona donna di Luigi. Mi concentro su di lui, fissandolo.
“luigi..” lo saluto chinando la testa di lato.
Non c'è bisogno di chiedere niente, perché sarebbe stupido. Mi limito ad osservarlo e aspetto che parli.
“allora Matteo.. come stai?” mi chiede.
“mi prendi per il culo?” gli rispondo.
La nostra è una conversazione pacata, come se fossimo due vecchi amici che si ritrovano al bar.
Luigi riprende a parlare:
“no amico mio, non ti prendo per il culo. Era solo una domanda per rompere il ghiaccio. Sai, ci sono voluti anni, ma alla fine c'ero quasi riuscito. Ancora pochi secondi e tu saresti diventato un freddo cadavere. La tua pratica sarebbe stata liquidata in fretta come “arresto cardiaco” e tutti i problemi sarebbe finiti. Ed invece eccoti qua. Se sono vivo è solo grazie a mio fratello Lidio che ha provveduto a colpirti facendoti svenire. Avrei preferito ucciderti lì, ma ho preferito cambiare i piani e portarti quassù. Sai dove siamo?
Nel tuo covo. Nel luogo dove tu portavi le vittime e ti divertivi a torturarle. È stato qui che abbiamo trovato i primi cinque cadaveri. Ma tu, nel frattempo, avevi già cambiato posto. Sai, per certi versi sei stato furbo.”
Smette di parlare, voltandosi verso di me che sto ridendo. Alzo lo sguardo.
“Luigi. Io non ho idea del perché sono qui, ma rido di te e di questo idiota che hai accanto. Rido di questo posto, di cui non ho ricordi e ti chiedo, anzi, ti imploro di farla finita in fretta, dicendomi perché sono qui e sparandomi in faccia il prima possibile.
Niente di personale, solo sei incredibilmente noioso”
C'è un attimo di silenzio in cui Luigi sorride abbassando lo sguardo. Poi si avvicina, prendendo una seggiola e posizionandola di fronte a me. Si siede.
“Vedi Matteo, il fatto che tu non ricordi niente di quello che è successo prima del tuo arresto è positivo, perché ci risolve un sacco di problemi, ma è altrettanto un problema perché tu, e solo tu, sai quello che io vorrei sapere.
Ma andiamo con calma. Visto che non ricordi niente, cercherò di rinfrescarti la memoria partendo dall'inizio.
Devi sapere che quando eri un ragazzino alcune persone hanno rapinato una banca dove lavorava tua padre e fin qui, diciamo, non c'è niente di strano. Devi sapere, però, che in quella rapina tuo padre
TUM
e tuo fratello più grande
TUM TUM TUM
sono morti, colpiti per errore da una raffica di mitra di uno di questi uomini”
Ascolto Luigi con attenzione, mentre la vista mi si offusca, poi un lampo e la testa mi cade all'indietro, gli occhi rigirati a mostrare solo la parte biancastra.
È mattina.
La mamma va a svegliare il bambino, che ancora ronfa beatamente sotto le coperte. Giuseppe è già in piedi. Mentre il bambino scende le scale lui ha appena finito di fare colazione e si avvia a lavoro, salutando la moglie e il suo piccolo. Esce di casa, seguito dal figlio più grande.
Montano in macchina e partono per andare chi a scuola, chi a lavoro.
Il bambino fa colazione con tutta calma. La madre lo porterà a scuola non appena avrà finito.
Marco scende di macchina e si incammina su per le scale, entra in classe e si siede. Il suo giorno inizia esattamente uguale agli altri.
Il padre, intanto, si dirige verso il luogo di lavoro. È un direttore di banca. Anche per lui la giornata non ha niente di speciale.
Il piccolo Matteo ha finito di fare colazione e si avvia con la madre a scuola. Ha dieci anni.
Una volta che è sceso di macchina la madre torna a casa per fare le faccende e, più tardi, andrà a lavorare. È una designer per giardini.
Questa giornata non ha niente di speciale per nessuno di loro. È una giornata come tante altre e il sole splende nel cielo.
A metà mattinata Giuseppe è già stanco e non vede l'ora che la settimana finisca per portare i propri figli al mare. Queste giornate sono troppo calde per passarle in ufficio. A scuola di Marco è ricreazione. Sta passando il tempo giocando a pallone con i suoi compagni di classe, con una palla improvvisata, ricavata grazie a del cartone e nastro adesivo. Matteo, invece, sta leggendo. I suoi compagni di classe sono fuori a correre, a giocare e ad urlare, ma lui non sembra interessato a tutto questo e preferisce immergersi nelle sue letture. I libri con le immagini dei dinosauri sono le sue preferite.
La madre, Marisa, passa a prendere Marco e Matteo all'ora di pranzo. Si dirigono verso casa e mangiano da soli, come è consuetudine. Il padre tornerà a casa solo verso sera, come ogni giorno.
E le giornate passano così, con una normalità ripetitiva tale da sembrare noiosa. Matteo è un appassionato di videogiochi, Marco di pugilato.
Marisa è una madre premurosa e Giuseppe non è da meno. Amano i loro bambini e fanno di tutto per dimostrarlo. Come portarli fuori città ogni fine settimana, ad esempio.
Quasi tutti i venerdì Giuseppe passa a prendere i figli a scuola, li porta a pranzo con se e poi in ufficio, se non ha molto da fare. All'ora di chiusura passa a prendere la moglie e tutti insieme vanno in posti sempre diversi. Sia Marco che Matteo adorano questa cosa ed è per questo che forse oggi sono così contenti. È venerdì e il padre ha promesso di portarli due giorni al mare, in Sardegna.
“Dove l'acqua è più blu!” Dice il padre a Matteo e Marco. E sorride. Un sorriso benevolo, dolce. Di quelli che ti fanno pensare che tutto questo durerà per sempre.
Mentre sono a pranzo stanno decidendo come organizzare i due giorni al mare. A Giuseppe arriva una chiamata dalla banca. Purtroppo dobbiamo finire il pranzo in fretta perché c'è bisogno di lui per ricevere dei clienti importanti.
Arrivati alla banca scendono e si dirigono verso l'entrata.
Una volta entrati Matteo e Marco corrono subito verso l'ufficio del padre, facendo a gara per appropriarsi della comoda poltrona da direttore di banca. Giuseppe si attarda a guardarsi intorno e poi li raggiunge.
E qui inizia l'incubo.
Entrando nell'ufficio si trova davanti ai dipendenti legati ed imbavagliati in un angolo. Delle persone armate gli balzano addosso immobilizzandolo. Subito il pensiero va ai figli e si volta per controllare dove siano.
Stanno bene, sono proprio lì, davanti a lui. Le pistole alle tempie.
Con un misto di orrore, paura e sangue freddo chiede le ragioni di tutto questo, ma la risposta è tanto ovvia quanto scontata da non aver bisogno di molte parole. Si tratta di una rapina.
Subito Giuseppe si preoccupa di spiegare ai rapinatori che gli è impossibile aprire la cassaforte e che gli unici soldi disponibili sono quelli alla cassa.
I rapinatori, forse i più imbecilli sulla faccia della terra, non sono d'accordo e sono convinti che Giuseppe possa aprire la cassaforte principale.
“Te la faccio facile: o apri la cassaforte o i tuoi figli si fanno male”
A queste parole il volto di Giuseppe cambia espressione. Adesso non è più paura. È calma e fermezza. La sua voce si fa decisa e in poche parole spiega come funziona la cassaforte.
Mentre parla Matteo piange e Marco è immobilizzato dalla paura.
Uno dei rapinatori si spazientisce e colpisce Giuseppe. Marco urla e si lancia verso il rapinatore. Matteo chiude gli occhi.
Quello che segue è solo un'accozzaglia non ben definita di urli, spari e poi è solo rumore di scarpe che si allontanano.
Matteo riapre gli occhi urlando dal dolore. Le sue gambe sono stese a terra, in una pozza di sangue. Vicino a lui il corpicino del fratello, dilaniato da una scarica di mitraglietta. Poco più distante il padre, ancora vivo, ma con evidenti difficoltà respiratorie. Nella stanza l'odore acre della polvere da sparo e del sangue. Le orecchie che fischiano e quel silenzio assordante. Tutto sembra immobile, fermo. I dipendenti non si sono ancora mossi dal loro angolo. Il padre di Matteo piange, guardando suo figlio Marco, sdraiato in terra, immobile. Poi volge lo sguardo verso Matteo, che sta piangendo, con una smorfia di dolore in volto.
“n..no...non piangere piccolo mio..” dice Giuseppe, con le lacrime agli occhi.
Matteo sta impazzendo dal dolore, ma riesce a guardare per un ultima volta suo padre, mentre la flebile luce che ancora albergava in lui si spegne, lasciando spazio solo ad un buio interminabile nei suoi occhi.
Matteo urla.
Mi sveglio di soprassalto, spaventando Luigi che era in piedi di fronte a me, cercando di farmi riprendere con degli schiaffetti sulle guance.
“Cosa è successo?” chiedo.
Scopro di essere svenuto per alcuni minuti.
“Si, capisco”.
Poi mi rivolgo verso Luigi:
“Continua”.
“Sei sicuro?
Non mi sembri in gran forma, se vuoi continuiamo fra un po'. Morto non mi servi a niente, adesso.”
“Continua.” Gli rispondo.
“Bah, d'accordo.
È presto detto, queste persone se ne andarono con un bel malloppo e con delle vittime che aggravavano la situazione.
Successe che per evitare di finire in galera decisero di aspettare che le acque si fossero calmate, prima di andarsene in giro con quei soldi o di cercare di riciclarli. Aspetta che ti aspetta finì che i soldi, un bel giorno, sparirono.
Te potresti dire che è normale e che non bisognerebbe fidarsi di altri ladri. E io ti darei ragione. Il problema però è che i soldi non erano nascosti tutti in un unico posto.
Proprio per evitare che a uno di loro venisse in mente di prendere tutti i soldi e scappare li divisero in tante parti quanti erano quelli che avevano partecipato alla rapina e ognuno li nascose in un posto che solo lui conosceva.
Non furono divisi equamente, ma a caso. E la maggior parte dei soldi rimase in mano a quello che allora era reputato come il capo.”
“E tutto questo cosa c'entra con me?” Gli domando.
“C'entra” mi risponde.
“C'entra perché quasi tutti i soldi sono spariti e solo tu sai dove si trovano. C'entra perché a quanto pare non ti bastava la vendetta, dovevi anche rubarmi tutti i soldi”.
“Rubarti?” chiedo.
“Si, rubarmi. Non ci sei ancora arrivato?
Sono io che organizzato tutto. Sono io il capo della banda. È solo grazie a me se siamo riusciti a mettere a segno un colpo così perfetto che è stato rovinato dall'imbecillità di tuo padre che voleva fare l'eroe. Disse che non poteva aprire la cassaforte. Stronzate.
Dopo la sparatoria gli altri riuscirono ad aprirla e anche se tutto non andò come previsto riuscimmo comunque a concludere. Se non fosse stato per quell'idiota e per te, che dopo tanti anni hai deciso di farti giustizia da solo, a quest'ora penseremmo solo a goderci la vecchiaia. Trenta anni, tanti mi ci sono voluti per organizzare un colpo perfetto, dopo aver perso tempo a rincorrere criminali per tutta la vita, e tutto è andato a puttane grazie a te. Sai,inizialmente pensavo che mi prendessi per il culo tant'è che pensavo di farti fesso con la storia dell'"amicone" che fa di tutto per farti uscire di galera. Hai idea dei favori che ho dovuto fare per farti uscire? Ho leccato la mia bella dose di culi pelosi e tutto per seguirti fino ad arrivare alla conclusione che davvero ti sei fritto il cervello e non ricordi niente.. due anni.. ti sono stato dietro come un gatto che osserva un uccellino aspettando il momento di strappargli le penne e mangiarlo.. tutto per niente..”
Mentre Luigi continua a parlare penso e ripenso a quello che mi ha detto, cercando di collegare il tutto ad un filo logico e a mettere in ordine tutto il casino che ho in testa. Ma, in realtà, l'unica immagine che ho impressa nella mente è lo sguardo di mio padre prima di morire.
Mio padre. Sto iniziando a ricordare qualcosa finalmente.
E per riuscirci, purtroppo, avevo bisogno di farmi raccontare la mia vita da chi me la ha rovinata. L'assassino di mio padre è qui, di fronte a me. Chissà se prima di perdere la memoria lo sapevo o se stavo cercando di arrivare a lui. Questo spiegherebbe il mio modo di operare sulle vittime.
Sono un cazzo di boia che tortura la gente per carpirgli informazioni.
Luigi continua a parlare. Mi racconta come sono andate le cose.
Dopo che il primo è sparito hanno pensato semplicemente che fosse in vacanza e se ne fosse andato senza avvertire nessuno. Ma quando è sparito il secondo hanno cominciato a sentire puzza di bruciato. Inizialmente si sono dati la colpa l'un l'altro, ma poi hanno capito che ammazzarsi tra loro non sarebbe stata una buona idea e hanno avanzato l'ipotesi che ci fosse un altra pedina nel gioco. Anche perché un conto sarebbe stato sbarazzarsi di due persone, mentre la realtà era che sparivano intere famiglie.
Dopo che la terza persona è sparita, insieme a tutta la famiglia, sono cominciate le ricerche.
Si è iniziato a parlare sui giornali di un “babbo natale cattivo” che invece di portare regali portava via le famiglie.
“Bad Santa Claus. Così ti hanno chiamato. Quanto sono coglioni alcuni giornalisti, eh?!”
Gli chiedo perché quel nome.
“Perché hai cominciato la tua opera nel periodo del natale.”
continua dicendomi che dopo la quarta famiglia sparita la polizia era nel panico. Nessuno si fidava più a uscire di casa e nemmeno a richiudersi dentro.
C'è stato addirittura un periodo in cui molta gente è andata all'estero in attesa di sviluppi. Il fatto di essere in polizia gli ha dato dei vantaggi, tra cui quello di poter chiedere informazioni su chiunque senza rendere conto a nessuno. Mi racconta che si è dato da fare per capire chi potesse essere ad avercela con loro così tanto da far sparire intere famiglie. La risposta è riuscito a trovarla qualche tempo dopo, quando è sparito il quarto dei loro.
È riuscito a collare tutti quanti alla rapina in banca, in cui io ero sopravvissuto.
Attraverso dei semplici controlli è risalito a dove abitavo.
“A quell’epoca” mi dice “eri ospite a casa di tuo zio. Tua madre era morta da poco e tu non eri abbastanza indipendente per poter vivere da solo. Tra le altre cose ho visto che hai un curriculum niente male, per quanto riguarda piccoli furti ed espedienti vari, compreso lo spaccio.”
“Che è successo a mia madre?” gli chiedo.
“Dalle mie ricerche risulta che era un alcolizzata. Ha avuto un'incidente stradale mentre tornava a casa, una sera, e non ce l'ha fatta. Guidava ubriaca, è finita fuoristrada.” mi risponde.
Continua dicendomi che mi ha seguito per giorni interi fino a che non è riuscito a scoprire dove portavo tutti quanti.
Poi smette di raccontare e mi fissa.
“ma che hai? Stai bene? Mi sembri pallido”
Faccio in tempo a sentire queste parole e poi è solo buio.
Capito 11
sogni
Sono al parco. Un giorno come tanti.
E queste parole:
“io ti ammazzerò Matteo.
Ti ammazzerò come una cane e finirò il lavoro che mio padre ha lasciato a metà”.
Silenzio.
Non sento più niente. Intorno a me è come se niente esistesse e quelle parole risuonano nella mia testa per alcuni secondi.
Mi volto lentamente verso di lui. Lo sguardo impassibile, gli occhi aperti, come volessero urlare quello che provano. Scatto su di lui colpendolo in faccia con un calcio, mentre l'altro giace già a terra svenuto, e corro verso la macchina. Corro come non ho mai corso in vita mia. Sento battere il cuore dentro la mia testa e ogni muscolo del mio corpo mi fa male. Arrivo alla macchina e, in tutta fretta, la accendo per poi partire a razzo. Arrivo al parco e con una velocità degna di rapitore butto di peso i due fratelli in bauliera. Chiudo per poi partire a razzo verso casa.
Quando arriviamo la parte più difficile è riuscire a portarli dentro senza farmi vedere. Così, senza nemmeno pensarci, parcheggio la macchina sul giardino, avvicinando il più possibile il retro alla porta di casa. I vicini mi guardano incuriositi, come è ovvio. Esco di macchina e dico loro qualcosa per convincerli a sloggiare:
“beh?! Mai visto uno che trasloca?”
Si voltano visibilmente offesi. Stupidi impiccioni.
Entro in casa ed esco con una coperta, apro il portabagagli e la uso per avvolgere Hamed. Lo prendo in braccio per portarlo in casa, dopo essermi assicurato che Bhilaa sia svenuto. Per farlo pungo una sua gamba con le chiavi e non ottenendo nessuna reazione capisco che molto probabilmente ne avrà ancora per molto. Porto Hamed in casa e lo immobilizzo alla meglio con del nastro isolante, avendo cura di coprire anche la bocca. Poi corro fuori e ripeto l'operazione con Bhilaa.
Li guardo per alcuni minuti, mentre i loro corpi sono qui davanti a me, immobilizzati a delle sedie, con tutte quel sangue che esce dalle loro facce, le teste chine.
Se non fossero legati come salami sembrerebbe che stiano dormendo.
Vado a cambiarmi, in tutta fretta, e riprendo la macchina per andare al supermercato. Una volta lì per prima cosa mi procuro dell'alcool, lacci emostatici, tanto nastro isolante, un paio di cesoie, pinze, un martello grande ed uno piccolo, una pietra per affilare, qualche birra e la cena.
Uscendo passo di farmacia.
Mi arruffo un po' i capelli ed entro. Il mio aspetto “agitato” gioca un ruolo fondamentale in questa fase. Chiedo scusa alla commessa per il mio aspetto un po' fuori dalla norma e le faccio presente che non riesco a dormire la notte per ovvi problemi di insonnia, chiedendole se può consigliarmi qualche prodotto per prendere sonno. La commessa è molto gentile e mi illustra tre prodotti. Prendo quello di media intensità e le chiedo come posso fare per somministrarmelo da solo o se devo chiedere aiuto ad un familiare. Mi spiega che basta mettere due gocce del prodotto in un bicchiere pieno d'acqua e berlo.
Torno a casa in fretta.
Entro in casa e preparo una bottiglia d'acqua e verso dentro metà boccetta. Una volta pronta prendo un pungolo e vado verso i due fratellini. Hamed è già sveglio.
“Adesso ti darò da bere, ma non sperare di urlare. Anzi, ti consiglio vivamente di stare fermo”.
Pratico un piccolo foro sul nastro adesivo che copre la bocca, in modo da infilarci una cannuccia.
“Ecco, ora puoi bere”. E Hamed beve.
Anche Bhilaa si sveglia e il procedimento è il solito.
Una volta che li ho fatti bere prendo una sedia e mi metto davanti a loro.
Mi guardano in cagnesco, il respiro affannoso, i volti tumefatti.
“Sai Hamed..” gli dico, mentre mi accendo una sigaretta “avresti fatto meglio a star zitto. Adesso mi toccherà torturarti per farti dire tutto quello che sai”
Aspiro una boccata dalla sigaretta.
“Te non hai idea di quello che ho passato e del tempo che ho perso cercando di scoprire chi è stato a uccidere mio padre e mio fratello. Adesso che tu me lo hai detto farò in modo che tu mi dica tutto quello che sai. Poi toccherà a tuo fratello, e solo dopo che mi avrete detto tutto deciderò se varrà la pena di uccidervi o rimandarvi a casa. Non subito, ovvio, ma una volta che tutto sarà finito”.
Vedo le palpebre dei due socchiudersi e le teste cadere in avanti, per poi tornare su di scatto.
“Non preoccupatevi, non è niente. Ho solo messo del sonnifero nell'acqua, così non vi agitate”.
Hamed dice qualcosa, ma credo siano solo offese o altre stronzate simili.
Non appena li vedo crollare finisco la mia sigaretta e mi avvio, con calma, a fare una doccia. Guardo fuori ed è già buio pesto.
Sarà un freddo ottobre.
Guardo la sigaretta.
È comodamente adagiata fra il mio dito indice ed il medio. Do un colpetto con il pollice e la cenere cade a terra. È interessante notare la velocità con cui la cenere della sigaretta corre verso il suolo. Si crede che essendo leggerissima debba impiegarci un po' più di tempo, fluttuando nell'aria, planando dolcemente verso il suolo, ed invece cade quasi in linea retta alla maniera di un pesante sasso.
Poi guardo la cenere in terra e penso che dopo mi toccherà pulire.
Ma adesso non ho tempo di pensare a questo.
Spengo la sigaretta e mi rimetto i guanti. Scelgo con cura il prossimo attrezzo e mi dirigo verso Hamed, ormai ridotto ad una maschera di sangue. Lo guarda e penso a cosa potrei fargli, di nuovo. Oramai gli ho tolto già qualche dente e gli ho inserito un chiodo nel naso, alla moda dei piercing.
Non mi ha ancora detto quello che voglio sapere. All'inizio pensavo che fosse colpa del fatto che ci andavo leggero. Prendere a pugni uno che bene o male ci è abituato è controproducente, così ho ripiegato verso altri mezzi e, nonostante tutto, pare che stia funzionando. Se non altro adesso ha smesso di fare il duro.
Bhilaa è legato alla sedia, in un angolo, con la faccia rivolta verso la parete. Non voglio che veda in anticipo quello che gli farò, preparandosi psicologicamente o cose così. E poi anche questa, in fondo, è una forma di tortura.
Mi avvicino ad Hamed e lo fisso. Le braccia incrociate, a valutare quello che ho fatto, come un artista con la propria opera.
Cosa potrei aggiungere, cosa potrei togliere per rendere unica la mia opera?
Hamed, intanto, si rivolge a me dicendomi che posso tranquillamente ucciderlo perché non mi dirà mai quello che voglio sapere.
Io lo guardo e sorrido.
“Oh, si. Lo farai. E molto presto anche”.
Poi mi volto per prendere del filo spinato e glielo sistemo intorno alle gambe, in modo che le punte premano sulla pelle, ma senza conficcarsi nella carne. Quando ho finito prendo una bottiglia d'acqua e bagni i suoi piedi.
“Questo ti farà male” gli dico. E subito dopo gli aggancio delle pinze da batteria sugli alluci.
Poi mi allontano e gli chiedo se ancora non vuol parlare.
Non risponde. In fondo quasi ci speravo.
Collego i cavi ad una batteria per macchina. La scarica è sufficiente perché lui sobbalzi e il filo spinato gli penetri nelle gambe.
La smorfia di dolore mi fa capire che ho trovato il modo giusto per ottenere qualcosa da lui. Tolgo i cavi dai suoi piedi e li aggancio al filo filo spinato sulle sue gambe. Poi torno verso la batteria e, senza dire niente o prestare attenzione a cosa sta cercando di dirmi Hamed, ricollego i cavi alla batteria.
Lo guardo attentamente contorcersi sulla sedia, mentre il filo spinato conficcatosi nella carne gli fa fuoriuscire degli schizzi di sangue ogni volta che ricollego i cavi. Sta urlando come un pazzo e dai suoi occhi sgorgano copiose lacrime, segno che è arrivato al limite.
Ogni volta che la scarica elettrica gli attraversa il corpo non può fare a meno di contrarre i muscoli delle gambe e lacerarsi con il filo spinato, che gli scarica elettricità direttamente dentro la carne.
Non so dire se quello che faccio mi piace o no. So solo che non mi fermerò fino a quando non avrò ottenuto quello che voglio.
Bhilaa è preoccupato per il fratello. Si dimena nel tentativo di liberarsi dalle strette corde, rinforzate con del nastro isolante, ma l'unica cosa che ottiene è di cadere sulla schiena, ribaltando la sedia.
Forse voleva semplicemente attirare la mia attenzione. Direi che ci è riuscito.
Smetto di giocare con Hamed per andare a rialzare Bhilaa. Poi lo fisso negli occhi e gli dico “vediamo di intenderci. Per me voi potete anche non dirmi niente, ma continuerete a starvene qui rinchiusi fino a che non sarò riuscito a farvi parlare, inventando ogni giorno qualcosa di nuovo. L'alternativa è dirmi quello che voglio sapere, così che possa lasciarvi in pace per trovare chi ha ucciso mio padre e mio fratello”.
Bhilaa mi guarda.
“Perché ci fai questo?” mi chiede.
“Perché?” rispondo “Hai idea dell'infanzia che ho avuto? Hai idea di cosa voglia dire veder morire tuo padre e tuo fratello davanti ai tuoi occhi? Essere sdraiati sul loro sangue?
No, non lo sai. Non puoi saperlo e mai lo saprai, per tua fortuna. Io però non ho la tua fortuna e lo so, quindi voglio sapere chi mi ha rovinato la vita per un capriccio. Sono stato esauriente?”
Bhilaa continua a fissarmi.
“Ma non puoi dare la colpa a noi se nostro padre ha ucciso il tuo..”
Ora è solo silenzio.
Sento i muscoli irrigidirsi. Sposto la testa di lato facendo schioccare le vertebre del collo e mi volto verso di lui.
“Dunque.. tu mi confermi che è stato tuo padre?”
Bhilaa continua a fissarmi, visibilmente preoccupato.
“Si” mi risponde.
Lo fisso a mia volta per alcuni secondi, poi sistemo le mie cose e abbandono la stanza. Uscendo non faccio caso alla differenza di temperatura, ma poi mi rendo conto che ho bisogno immediatamente di una doccia, se non voglio ammalarmi. Non posso rischiare, altrimenti sarei costretto a rimandare.
Nella stanza il calore è insopportabile. L'ho ricavata sistemando materassi sulle pareti, in modo che da fuori non si possa sentire niente. Il problema è che oltre a non far passare i rumori non permette nemmeno un ricambio di aria decente o alla stanza di raffreddarsi.
Appena uscito dalla doccia sento il telefono squillare. È Cloe.
Non le rispondo. Da ottobre non mi sono fatto più sentire. Credo che cambierò numero, almeno non avrò più problemi di questo genere.
Mi dispiace per lei ma non voglio che faccia parte di tutto questo. Non se lo merita e piuttosto che raccontarle la verità preferisco che mi creda uno stronzo. E poi, adesso, non mi interessa più niente. Non voglio più avere altri pensieri per la testa. L'unica cosa che voglio è vendicarmi.
Vendetta. Pura e semplice.
Voglio uccidere uno ad uno tutti quei figli di puttana che hanno ucciso mio padre e mio fratello, costringendo me a diventare un pezzo di merda egoista che ha causato la morte di sua madre e che non è stato capace di vivere decentemente. Tanto vale, dunque, toccare il fondo, praticare un foro e gettarvisi in picchiata visto che ormai non si può più tornare indietro.
“Mi ha sempre fatto fatica salire le scale. Tanto vale scendere ancora” dico a me stesso.
Mi vesto ed esco di casa.
Non faccio più il lavoro che facevo prima. Mi sono licenziato dopo nemmeno sei mesi. Non avevo tempo per star dietro ad un povero cretino incravattato e con la puzza sotto il naso.
Ho qualche spicciolo in banca, frutto di lavoretti estivi, e qualcosa l'ha ricavata dalla liquidazione. Per adesso non ho bisogno di altri soldi. Se mai ne avrò bisogno penserò a come fare.
Vado al supermercato a comprare la cena, qualcosa da bere ed altre cosette.
Come sempre, al ritorno, passo dalla sala giochi a fare un giro. Non ho più visto Massimo e non ho idea di che fine abbia fatto.
Dopo il rito del “passaggio” torno a casa a prepararmi la cena, che consumo davanti alla tv. Uno dei vantaggi del vivere da solo.
Non ho ancora deciso cosa fare di Bhilaa e Hamed. Io fondo loro non c'entrano niente. Sono dei grandissimi stronzi, intendiamoci, però non è un valido motivo per farli fuori. Ci penserò.
Consumo la mia cena guardando un cartone animato e, una volta finito, vado a prepararmi.
Indosso il mio “completo da battaglia”, come ai vecchi tempi. Con l'unica differenza è che adesso indosso anche un passamontagna. Considerando che è inverno direi che è una buona cosa.
Casa di Hamed finalmente è libera. È da un mese che è sempre pieno di poliziotti qui intorno. Forse pensavano che “i rapitori” chiamassero a casa per chiedere un riscatto e poi hanno desistito dall'attendersi una telefonata.
Adesso posso pensare a come agire. Il problema più grande è che abitano in un palazzo. Sicuramente sarà circondato da stupide telecamere. Devo riuscire a prenderlo prima che entri o trovare un altro modo per arrivare a lui.
“Pensa cazzo, pensa!” dico a me stesso. Poi mi rendo conto che devo tranquillizzarmi o non riuscirò a combinare niente. Mi siedo un momento per riordinare le idee e valutare la situazione.
Lavora in fabbrica, quindi non posso sperare di prelevarlo a lavoro, anche se il fatto che non sia in un ufficio mi facilita le cose. Potrei cercare di farmi assumere dove lavora ma impiegherei troppo tempo e non ho voglia di tirarla per le lunghe.
No, devo trovare un altra soluzione.
Mentre ci penso tiro fuori altre due o tre idee. Per distrarmi e valutarne altre decido anche di fare un giro intorno alla casa, cercando sempre di non farmi notare o comunque di mostrarmi un semplice passante. Finisco il giro e non trovo niente di interessante. Decido quindi di andarmene per valutare bene la situazione quando lo vedo uscire dal portone principale.
Inizialmente rimango un po' sorpreso, poi la rabbia prende il sopravvento. Vorrei saltargli alla gola e strappargli il cuore ancora pulsante dal petto per mangiarlo davanti ai suoi occhi.
Ma poi mi ricordo perché sono lì e mi comporto come se niente fosse. Continuo a camminare. Gli passo così vicino da poterlo vedere bene in faccia. Continuo a camminare e dopo pochi passi mi volto verso di lui mostrandomi sorpreso.
“Ma lei è il padre di Hamed?” gli chiedo.
Lui si volta fermandosi. Mi guarda e mi risponde di si, un po' stordito.
“Mi scusi, sono Matteo un amico di suo figlio. Mi ha telefonato qualche giorno fa per dirmi che ha combinato una casino. Ho preferito non dire niente alla polizia e sono venuto a cercare lei direttamente. Mi ha espressamente detto di non farlo ma io non me la sono sentita di lasciar perdere. Mi scusi se ci ho messo tanto ma non sapevo dove abitava”
A quelle parole il volto di suo padre si illuminano di gioia e allo stesso tempo di rabbia.
“Sta bene? Dov'è? Che ha combinato? Ma con chi è? Come ha fatto ad andare avanti fino ad ora?”.
È visibilmente scosso.
Cerco di calmarlo rispondendo ad alcune delle sue domande e poi mi offro di accompagnarlo da lui, a patto che non dica niente a nessuno e che non dica ad Hamed che sono stato io a portarcelo.
“Si si non c'è problema, portami subito da lui, poi ci penso io”.
Saliamo in macchina e lo porto a fare un giro.
Mentre siamo in viaggio allungo la mano dietro al sedile e tiro fuori una bottiglietta d'acqua.
“Tenga, beva un sorso. La vedo un po' agitato” gli dico.
Si volta di scatto.
Guarda me e poi la bottiglietta dicendomi “no, ti ringrazio”.
“Coraggio, le farà bene. Almeno la sete se la tolga subito, il resto se ne andrà una volta riabbracciato suo figlio. Mi raccomando non dica che ce l'ho portata io lì. Ah, se vuole ho anche delle birre”.
“No, no, non preoccuparti”
Mi risponde, prendendo la bottiglia.
Beve qualche sorso d'acqua e si calma un poco.
Poi si rivolge a me dicendomi:
“come hai detto che ti chiami?”
“Matteo” gli rispondo.
“Si, giusto. Matteo. Si, mi pare che mi abbia parlato di te. Hai un nome che ho già sentito.”
Poi si guarda intorno.
“Manca ancora molto?” mi chiede.
“No, ci siamo quasi”.
Continuo a guidare per altri cinque minuti e poi parcheggio.
“Da adesso dovremo farcela a piedi”.
Scendiamo di macchina e gli indico la strada da seguire.
“Ecco, camminando per questa strada si arriva a una casa abbandonata. Hamed vive praticamente lì. Se vuole posso accompagnarla fino a quando non saremo vicini, ma poi sarò costretto ad andarmene per non farmi scoprire. Ha con se un cellulare?”
“Si, certo”
“Bene, allora quando lo avrà trovato potrà farsi dare tutte le spiegazioni che vuole e dopo potrà decidere cosa fare e chi chiamare”.
Poi entro in macchina, prendo un bicchiere e lo riempio di birra.
“Tenga, qui vicino c'è un bar. Se lo vedrà arrivare con una birra in mano potrà sempre dire di essere stato lì e di essersi incamminato per stare un po' da solo. Le conviene berne un po' prima, però”.
Gli porgo il bicchiere e lui mi guarda un po' stranito.
Poi beve una buona sorsata di birra e leccandosi i baffi mi guarda.
“Come conosci mio figlio?”
“Amicizie in comune. Abbiamo giocato tante volte a pallone insieme”.
“Mio figlio non gioca a pallone”
“Lo so, ma è la prima cazzata che mi è venuta in mente.”
Adesso ci guardiamo in silenzio. Sorseggiamo ognuno la sua birra.
“E adesso?” mi chiede.
“Adesso aspettiamo che il sonnifero nella tua birra faccia effetto e poi ti porto da tuo figlio” gli rispondo.
Capito 12
recluso
Quando riapro gli occhi non sono più legato alla seggiola. Sono in una specie di prigione. Una piccola stanza con una sola porta e le pareti lisce come piastrelle.
Faccio per rigirarmi e cado nel vuoto, per poi atterrare due secondi dopo sul pavimento.
Proprio l'ultima cosa di cui avevo bisogno, adesso. Non ho idea di quanto ho dormito, sono confuso, mi fa male la testa, ho fame e sono appena atterrato di fianco su un pavimento di duro cemento.
Faccio fatica a rialzarmi.
Quando ci riesco mi avvio verso il piccolo tavolino che c'è in un angolo della stanza. Mi siedo sullo sgabello e mi verso un po' d'acqua.
Poi, con calma, osservo il tavolino e quello che c'è sopra. Un po' di frutta fresca, dei panini e del formaggio.
Questo non è positivo. Non si rapisce qualcuno, dopo aver cercato di ucciderlo, per poi trattarlo bene.
"Sono fottuto" dico a me stesso.
Poi mi stringo sulle spalle come non me ne importasse niente ed inizio a mangiare.
Devono avermi iniettato qualcosa, probabilmente della morfina o comunque dei calmanti, altrimenti non saprei come spiegarmi perché sto così male.
Finito di mangiare inizio a passeggiare per la stanza, cercando di riprendermi e di riacquistare sensibilità in tutto il corpo. Mentre lo faccio ripenso a quello che ho sognato, o meglio, a quello che ho ricordato questa volta. Poco a poco sto riacquistando la mia memoria e, ad essere sinceri, provo un po' di inquietudine.
Cosa succederà quando ricorderò tutto?
Tornerò ad uccidere?
Finirò il lavoro con Luigi e Lidio e poi smetterò?
Potrò continuare a vivere come adesso o sarò come posseduto dalla rabbia e dalla disperazione?
Tutte domande a cui non posso dare risposta, primo perché non posso saperlo e secondo perché non ho tempo per farlo. Qualcuno sta per entrare nella stanza.
Sento la chiave entrare nella serratura ed azionare i pesanti meccanismi. La porta si muovo verso l'interno strusciando sulla polvere leggera che ricopre la stanzetta e producendo un leggero cigolio metallico. Il primo ad entrare è Luigi, seguito da quel leccapiedi di Lidio.
È Luigi ad aprire il dialogo:
"Ben svegliato, ragazzo"
Sorrido.
"Ma te lo porti dietro anche a pisciare quel succube lì dietro?" gli chiedo, facendo cenno con la testa verso Lidio.
E riesco finalmente a farlo parlare.
"Ma si, ridi, scherza fin che puoi, continua pure a fare il pagliaccio. Non hai idea di quello che sta per capitarti" mi dice.
"L'importante è che non sia passare una serata insieme a te. succube!" Gli rispondo.
Lui non gradisce. Si avventa su di me prendendomi a pugni fino a che non interviene Luigi a trattenerlo e a riportare la calma.
Sono a terra mezzo intontito, ma sento con chiarezza Luigi sbraitare in faccia a Lidio in merito al motivo per cui mi hanno portato qui. Qualcosa del tipo: "che cazzo lo abbiamo portato a fare qua, vivo, se poi tu lo ammazzi a calci e pugni, me lo spieghi?
Hai insistito per prenderlo vivo ed interrogarlo e ora lo ammazzi?" o qualcosa del genere.
Scuoto la testa e sputo sangue a terra. Poi mi rivolgo a Luigi:
"picchialo con un giornale arrotolato. è così che si fa con i cani cattivi”
E poi sorrido, i denti insanguinati, sdraiato su un fianco.
I due mi guardano in silenzio per qualche secondo, poi Luigi si avvicina, tirando fuori la pistola.
"Coraggio, dì un'altra battuta, facci ridere, forza!" mi dice, premendo la pistola sulla mia faccia.
"Sei ridicolo" gli rispondo.
“E pure coglione. Hai appena detto a lui che non vuoi uccidermi e pensi di farmi paura puntandomi addosso una pistola?"
Mi colpisce con il calcio della pistola, facendomi perdere i sensi.
Quando riapro gli occhi sono immobilizzato su un lettino.
Luigi sta gironzolando qui intorno, sistemando cavi e altre cose.
"Ma tu non lavori mai?" gli chiedo, senza ottenere nessuna risposta.
Cerco di muovere la testa e noto alcuni sensori, del tipo che si usano in ospedale per controllare il battito cardiaco, attaccati al mio corpo.
"No buono" dico fra me e me.
"Sai" inizia a parlare "facendo il mio lavoro capita spesso che chi è accusato di omicidio, o cose del genere, per cui debba farsi almeno una decina buona di anni di galera, cerchi di difendersi ostentando perdite di memoria o cazzate del tipo "ero fuori di me, non mi ricordo niente" eccetera e il modo migliore per vedere se sono sinceri o se dicono vagonate di stronzate è fulminargli il cervello con queste"
Mi mostra due piccoli bastoncini da cui partono un paio di cavetti, collegati a una specie di videoregistratore modello anni 90, con in cima due piccole piastre metalliche.
"Grazie a questo giocattolino sono riuscito a far rinsavire molti "smemorati". In alcuni casi sono bastate due piccole scosse. Tu quanto durerai?"
Mi chiede, voltandosi verso di me.
"Credo in eterno, visto che io non faccio finta" gli rispondo.
"Oh, non preoccuparti. Secondo alcuni studi, se è fatto bene, l'elettroshock può servire anche a far tornare la memoria".
"Ah beh, allora.. Tanto te sei un medico esperto, vero?"
sorrido.
"Vaffanculo Luigi. Prima o poi riuscirò a liberarmi e ti sbranerò come ho fatto con la mia ultima vittima".
Appena finisco la frase Luigi smette di trafficare nel balcone qua accanto. Si blocca ed inizia a ridere. Da prima una risata sommessa, poi sempre più forte, come se qualcuno avesse appena finito di raccontare una barzelletta divertente.
Poi si volta verso di me:
"tu non hai mai sbranato nessuno povero scemo. Anzi, a dire la verità tu non hai proprio mai ucciso nessuno".
Rimango per un attimo perplesso e poi volto gli occhi verso di lui.
"Ma che stai.. che?! che vuol dire?"
Mi guarda. Le braccia distese lungo il corpo. Quegli affari in mano.
Si avvicina.
"Lascia perdere. Poi ti racconto"
Queste sono le ultime parole che sento. Dal momento in cui avvicina quei cosi alla mia testa perdo ogni concezione di tempo e spazio.
Quando mi riprendo sono nella mia "cameretta". Apro gli occhi e mi appare quel maledetto soffitto bianco, con quella fottuta lucina fastidiosa. Ho i muscoli indolenziti. Mi sento come se una mandria di bisonti mi fosse appena passata sopra.
E voi, giustamente, mi chiederete: come fai a sapere come ci si sente quando una mandria di bisonti ti passa sopra?
Ed io vi risponderò: voi lo sapete?
Io non lo so, ma immagino che la sensazione sia questa.
Faccio per alzarmi e lancio un grido di dolore. Una volta seduto sul letto mi alzo la maglietta. Ho delle bende all'altezza del petto. Devo avere delle costole rotte.
Cerco di alzarmi per raggiungere l'acqua che c'è sul tavolino. Non appena sono in piedi le gambe iniziano a tremare e rischio di cadere ad ogni passo ma ho le labbra secche, come fossi appena uscito dal deserto, e il desiderio di raggiungere quella bottiglia leggermente umida è troppo forte.
Con un ultimo sforzo raggiungo il tavolino e mi appoggio lì sopra. Mi siedo e allungo la mano verso la bottiglia. Mentre la apro le mani mi tremano. Sento l'acqua scendermi nella gola e le sensazione è bellissima.
Arrivato a metà bottiglia mi fermo per riprendere fiato.
Mi volto verso la porta e mi guardo attraverso il riflesso.
"Riflesso.." penso.
"Specchio.. La porta a specchio!".
"La porta è a specchio!" Dico ad alta voce.
Poi evito di parlare ancora e ricomincio a pensare.
"Questa porta è a specchio. È per questo che luce è sempre accesa. Oltre a indebolire chi è qua dentro grazie alla tecnica di privazione del sonno serve anche a fare in modo che chi è qua dentro non veda fuori e che chi è fuori veda quanto è destabilizzato chi è dentro, oltre a permettergli di tenerlo costantemente sotto controllo. Luigi, maledetto figlio di puttana.. mi ha portato dove facevo gli interrogatori".
Bevo qualche altro sorso e poi mi alzo di nuovo.
"Devo camminare, riattivare la circolazione ed i muscoli. Devo essere pronto".
Cammino per una buona mezz'ora zoppicando ed imprecando ad ogni fitta chi mi prende all'addome, prima di riuscire a camminare correttamente. Faccio piccoli passi, senza affaticarsi troppo. Da una parete all'altra, senza esagerare.
"Luigi. Luigi. Luigi. Luigi. Luigi." non riesco a pensare ad altro.
"Ha ucciso la mia famiglia e voleva uccidere anche me. Poi ci ha ripensato e ora mi sta torturando per farsi dire dove ho nascosto i soldi. Quei soldi che sono costati la vita a mio padre e mio fratello e che lui ora spera di godersi. Anche se me lo ricordassi non gli direi mai dove sono. E come se non bastasse adesso mi ha portato nella mia "tavernetta delle torture" per convincermi a dirgli qualcosa che non so, utilizzando l'elettroshock. Come se fulminarmi il cervello potesse servire a farmi ricordare, accidenti a lui.
Però qualcosa mi ricordo, oh si. Mi ricordo, ad esempio che mi chiamo Matteo e lui luigi. E mi ricordo anche di Lidio, quel piccolo bastardo succube di Luigi. Devo trovare il modo di.."
E mentre penso a queste cose ecco che qualcuno si appresta ad entrare. Sono loro due che mi portano da mangiare.
"Sempre in coppia voi due, eh!? Proprio come i coglioni"
Sia Luigi che Lidio rimangono per un attimo perplessi. Poi lo Sbirro prende la parola.
"Vedo che ti sei ripreso in fretta. Ah, senti, hai un paio di costole incrinate e uno strappo muscolare alla gamba, non ricordo quale. Inconvenienti del mestiere. Su, mangia. hai dormito 20 ore filate, immagino avrai fame."
Mentre Luigi parlava Lidio ha già sistemato il vassoietto sul tavolo e si è allontanato. Osservo la scena finché Luigi si volta e segue Lidio fuori dalla porta.
"Oggi non ci sarò" mi dice " ho delle faccende da sbrigare. Cerca di riposarti, perché poi riprenderemo il nostro discorsetto." Dopodiché si allontana, chiudendo la porta alle sue spalle.
Mi siedo e cerco di mangiare qualcosa, anche se ho lo stomaco sottosopra. Quei due idioti devono avermi dato della morfina. Mi sento davvero male.
Passo le ore successive a continuare la mia camminata su e giù per la stanza, concedendomi ogni tanto piccole soste per non affaticarmi troppo.
"Devo ricordare cazzo. Devo ricordarmi chi sono, dove mi trovo. Devo trovare il modo di uscire da qui e fargliela pagare a quel bastardo. Pensa Matteo, pensa cazzo!"
Ed è mentre sto cercando di togliermi da questa situazione che sento la chiave aprire la pesante porta.
È Lidio ad entrare. A quanto pare Luigi non è ancora tornato.
"Ti porto dell'acqua e una bella notizia. Luigi mi ha chiamato adesso. Sta tornando e tra mezz'ora sarà qui" poi sorride "qualche ultimo desiderio?"
"Si" gli rispondo "mi piacerebbe sapere chi sei te e perché ce l'hai tanto con me".
Mi guarda.
Poi abbassa lo sguardo, come fa chi deve riflettere un momento per scegliere le parole giuste da dire.
"Sai" mi dice "se devo essere sincero quando ti ho visto per la prima volta non avrei mai pensato cosa sarebbe successo. Insomma, eri solo un ragazzo come tanti. Ma poi ho capito tutto. Tu hai solo finto, fin dall'inizio. Sei entrato in casa mia prendendoci per il culo fin dall'inizio e quello che è peggio è che ti sei servito di mia figlia"
Poi fa una pausa, singhiozzando appena, e ricomincia a parlare.
"L'hai presa in giro, fin dall'inizio e ti sei servito di lei solo per arrivare a me".
Si avvicina a me, fino a trovarci faccia a faccia.
"E poi, quando non ti è servita più, l'hai uccisa, come tutti gli altri. Hai dato fuoco a quella maledetta casa per fare meno fatica e ucciderci tutti in un colpo solo"
Poi si allontana, continuando a parlare.
"Se sono vivo è solo grazie a Luigi, che aveva capito dove si trovava il tuo nascondiglio. È passato di là ed è riuscito a liberarmi prima che bruciassi vivo. Per gli altri, per tutti gli altri era già troppo tardi.
Grazie alle sue conoscenze è riuscito ad infiltrarmi nel suo nucleo operativo.
Ufficialmente io ho traslocato con tutta la mia famiglia. La mia famiglia che ora, in realtà è sotto tre metri buoni di terra!"
Adesso la sua voce si è fatta rabbiosa. Qualche lacrima inizia a solcare il suo viso.
"La mia CLoe. La mia piccola Cloe.."
E mi colpisce. Un pugno violento, come a voler scaricare tanta rabbia che porta dentro.
Come dargli torto?
Poi esce dalla stanza e rimango da solo per non so quanto tempo.
Non so se Luigi è tornato. Non so nemmeno che ore sono né quanto tempo è passato, ma da come mi sento immagino sia ora di riposare.
Provo quindi ad addormentarmi, nonostante quella maledetta luce. inizialmente mi sdraio semplicemente nel letto, poi provo con il cuscino sulla faccia. Alla fine mi rendo conto che l'unico modo è provare a stare sotto al letto, anche se non è proprio il massimo della comodità.
E infatti desisto e ritorno sopra, dove passo buona parte di quella che credo sia la notte a contemplare il soffitto.
Cloe.
Cloe.
CLoe.
Questo nome continua a risuonarmi nella testa. è come un piccolo campanello d'allarme.
Cloe.
Chi è?
cosa è?
Poi mi guardo intorno. Sono in mezzo ad un campo arato. La terra nuda sotto i piedi scalzi. La sensazione è piacevole. Comincio a camminare cercando una probabile uscita da quel campo e arrivo in una zona dove la terra è più asciutta. Continuo a camminare. Ora la terra è sempre più secca. Mano a mano che cammino si fa sempre più arida, fino scottare. Ora la sensazione è sgradevole.
Inizio a correre, cercando di scappare da quel calore insopportabile ma più corro e più la terra si fa bollente. Non posso e non voglio tornare indietro, ci deve essere un modo per uscire di qua.
Quando ecco che, finalmente, sento il rumore di un corso d'acqua. Smetto di correre e mi avvicino al piccolo ruscello, limitandomi ad osservarlo. Il solo guardarlo mi fa stare bene e non ho nemmeno bisogno di bere o bagnarmi per sentirmi meglio.
Decido quindi di camminare a fianco del rigolo d'acqua per vedere dove mi porta.
Poco a poco si fa sempre più grande, fino a diventare un vero e proprio corso d'acqua. Cammino fino ad arrivare ad un laghetto, dalle cui acque si erge una creatura meravigliosa che si avvicina a me.
La sua voce è pacata, rassicurante.
Chiudo gli occhi per un secondo e quando gli riapro mi trovo davanti una persona. Siamo di fronte una casa e stiamo parlando sottovoce.
Il suo bacio è qualcosa che mi prende l'anima. Di colpo smetto di pensare ed ogni preoccupazione sparisce. La stringo forte a me, chiedendole se vuole restare.
Entriamo in casa che ci stiamo ancora baciando e iniziamo a spogliarci reciprocamente, preoccupandoci sempre di tenere le nostre labbra il più vicino possibile.
La sua pelle ora tocca la mia, i nostri corpi si fondono a formare un'unica essenza profumata, una melodia perfetta ed unica. I muscoli che si muovono insieme, ritmicamente.
Il respiro che diventa tutt'uno, le sue unghie graffiano la mia schiena, io che mordo il suo collo e le sue spalle, stringendola a me come a non voler lasciarla mai.
All'improvviso il letto sotto di me cede ed inizio a cadere nel vuoto. Mentre cadiamo ci teniamo per mano per non rischiare di perderci. Ora la sua voce melodiosa si è fatta grido. Le sue note armoniose sono un accozzaglia di suoni acuti quasi fastidiosi. Mentre cadiamo acquistiamo sempre più velocità e il vuoto sembra non finire mai. La stringo forte a me, per paura di perderla ma i suoi vestiti, i suoi capelli, la sua faccia, la sua pelle vanno a fuoco e sono costretto a lasciarla andare.
Lei mi guarda, gli occhi increduli mentre mi osserva allontanarmi. Poi osserva le sue stesse mani infuocate e lancia un orrendo urlo di dolore, così forte da costringermi a tapparmi le orecchie con le mani, inutilmente.
Mi risveglio urlando e portandomi a sedere sul letto.
Il respiro è affannoso, sono completamente sudato.
Ignorando il dolore al petto ed alla gamba mi alzo e vado fino al tavolo. Mi accendo una schifosa sigaretta e bevo qualche sorso d'acqua, cercando di riprendermi.
Poi, ripreso fiato, inizio a piangere.
"Ora.." dico fra le lacrime "ora ricordo tutto.."
"CLOOOOOOOOEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE"
Urlo.
Gli occhi al cielo, disteso sulla sedia, con le lacrime che colano, una dopo l'altra, fino alla nuca e poi verso il pavimento. Sono tante e sembrano non finire mai, come fossero riuscite finalmente ad abbandonare la fortezza di rabbia e dolore che le ha trattenute sino ad ora.
Passo la nottata a camminare su e giù per la stanza, rimuginando.
Ho voglia di dar fuoco a qualcosa, di tagliuzzare, di mangiare carne, di rompere qualcosa.
Scatto verso il tavolino, alzandolo di peso e lo lancio contro la parete. Un isto di rabbia e disperazione si impadronisce di me.
“Perché?” mi domando.
“come ho fatto a trovarli? Come ci sono arrivato? Come ho conosciuto Cloe?”
Troppi interrogativi, non riesco a pensare lucidamente.
La frustrazione si impadronisce di me e non riesco a mettere a fuoco i ricordi. Fuoco. Perché continuo a pensarci? Ad a che fare con tutta questa storia?
Domande, domande, domande.
Troppe, inutili.
Non ho le risposte, almeno per ora. Piccoli sprazzi di memoria mi inondano i pensieri, suoni, immagini, persone che non riconosco nell'immediato.
Dolore. Profondo, eccessivo. Raccolgo il tavolo e mi siedo, le mani tra i capelli, i gomiti appoggiati al tavolo.
Porto indietro la testa, guardo il soffitto con aria pensierosa.
Alzo il sopracciglio.
Le mani serrate sui bordi del tavolino.
Colpisco con forza il ripiano, incrinando quel debole compensato da quattro soldi. Mi risveglio la mattina dopo o, almeno, credo sia mattina, visto che Lidio entra per portarmi la colazione, seguito da Luigi.
Mi alzo dalla sedia mezzo intontito e mi avvicino a Lidio.
Sbadiglio. Ho la faccia intorpidita per aver passato la notte sul tavolo.
Mi alzo in piedi.
Mi piego sulle ginocchia, lentamente, come a voler riprendere fiato, e mi alzo di scatto colpendo con un pugno il vassoio e rovesciando la tazza di caffè bollente in faccia a Lidio per poi allungare un piede verso lo stomaco di Luigi, seguito da un pugno in modalità stella cadente sulla sua faccia, mentre è piegato a causa del colpo appena ricevuto, facendolo cadere rovinosamente a terra.
Mi volto verso Lidio che sta ancora toccandosi la faccia per colpirlo in volto ed esco velocemente chiudendo la porta alle mie spalle e sedendomi a terra per riprendere fiato.
Devo smetterla con questi sforzi, non sono più un ragazzino.
La particolarità di questa porta è che non può essere aperta dall'interno. Non c'è serratura né maniglia. Per questo entravano sempre in due, uno doveva controllare che la porta non si chiudesse. Quando l'ho progettata non mi sarei mai sognato di entrarci dentro per portare il cibo alle mie vittime. Mi sono sempre limitato ad aprire la porta, per poi uscire dietro le sbarre.
Si, perché ho anche progettato una seconda porta, fatta di sbarre d'acciaio, alla moda delle prigioni vecchio stile. Anche qui la chiusura è simile. La porta non ha la maniglia ma in compenso ha la serratura e quindi può essere aperta anche da dentro.
Con le relative chiavi, ovviamente.
Le chiavi che ha Luigi.
Lo sento che urla da dentro la stanza.
"Sei un idiota Matteo!
Ci hai condannati tutti, maledetto pazzo fottuto".
"Siamo già tutti condannati" gli rispondo.
Poi è silenzio. Dopo un paio di minuti è Lidio a prendere la parola.
"Perché lo hai fatto? così moriremo tutti e tre. Che senso ha?"
"Non ha senso" gli rispondo "proprio come la storia che ti ha raccontato Luigi".
"Che vuoi dire?" mi chiede.
Mi alzo e mi avvicino al tubo che porta aria alla stanza. Lo colpisco, rompendolo, ed inizio a parlare lì dentro.
"Mi sentite adesso? bene, allora ascoltate.
Lidio, ragiona, perché Luigi è riuscito a salvare solo te? come mai non eri insieme alla tua famiglia ma in una stanza, da solo?"
"Come fai a sapere che ero da solo?" mi chiede.
"Perché so dove erano gli altri, e tu non c'eri" gli rispondo.
"Ma cosa stai..?"
"Zitto. E ascolta. Io non posso aver dato fuoco alla casa, per il semplice motivo che quella sera ero a casa dell'assassino di mio padre e mio fratello. Non posso essere stato io perché ero a casa di Luigi!"
"Tutte cazzate" prende la parola Luigi, rialzandosi a fatica da terra "non ascoltarlo, sta solo cercando di fotterti il cervello"
"che motivo avrei, coglione, visto che tanto stiamo per morire tutti e tre. A che servirebbe mentire ora, che scopo avrebbe?
Io non sto mentendo e tu lo sai bene, visto che sei stato tu a dar fuoco alla casa, bastardo!
Sei tu che li hai uccisi tutti, io mai e poi mai lo avrei fatto, soprattutto dopo aver trovato Cloe!"
"Cosa c'entra mia figlia, adesso?" urla Lidio.
"Non ci arrivi Lidio?
Io amavo tua figlia, ed è solo per merito suo se non avevo ancora ucciso nessuno. Da prima volevo semplicemente uccidervi tutti ma non ero sicuro di volerlo fare. Poi, per non mentirle, le ho detto tutta la verità e lei.. beh.. ha deciso di aiutarmi. Sai come si dice, no?
nella BUONA E NELLA CATTIVA SORTE!"
"Ma cosa stai dicendo bastardo, come ti permetti di infangare così il nome di mia figlia, tu non devi nemmeno nominarla, assassino!
Ma cosa vuoi ancora da me, si può sapere?"
"Voglio che tu guardi in faccia la realtà e che tu riconosca le colpe della morte di tua figlia, della tua famiglia, dei tuoi amici al vero assassino e a colui che è riuscito a costruire una storia credibile contando sulla mia infermità mentale e sulla tua stupida, cieca riconoscenza per averti salvato dopo aver cercato di ucciderti, convincendoti che fossi stato io!
ecco cosa voglio!"
"Ma allora.."
"Si Lidio."
La mia voce si fa rabbiosa.
"A dar fuoco alla casa è stato Luigi. Sapeva della mia storia con tua figlia perché mentre voi vi accusavate a vicenda lui si preoccupava di capire chi ci fosse dietro a tutte quelle sparizioni e dopo avermi trovato ha capito di essere arrivato alla fine dell'arcobaleno. Io ero l'assassino e avrei ucciso tutti voi, lui sarebbe arrivato al momento opportuno per uccidere me e poi si sarebbe goduto tutti i soldi. Ma poi ha scoperto che io non avevo ucciso nessuno e probabilmente ha preso le ultime informazioni che gli servivano da Cloe, prima di ucciderla, bruciandola viva insieme a tutta la tua famiglia e agli altri, dando fuoco alla casa dove li tenevo nascosti."
Faccio una piccola pausa e cerco di calmarmi, riprendendo a parlare normalmente.
"Ho anche una buona notizia per te. Tua moglie e tuo figlio non sono morti.
Sono al sicuro. Cloe ha raccontato tutto a tua moglie che è sparita senza lasciare tracce dopo aver compreso la tua vera natura. Cloe non l'ha seguita perché ha detto che voleva rimanermi vicino, per impedirmi di fare qualcosa di orrendo, più orrendo di quello che già non avevo fatto. Vuoi sapere come faccio a ricordarmi tutto?
È bastato che tu pronunciassi il suo nome. Il mio cervello si rifiutava di ricordare tutto questo. Il dolore è così intenso che non riesco a spiegartelo. è come trovarsi in un fiume in piena. Un turbinio di pensieri, un insieme confuso di sensazioni incomprensibili. È qualcosa di allucinato, psichedelico ed incredibilmente doloroso."
Luigi inizia a ridere.
"Complimenti, davvero una bella storiella. Ora, se hai finito con i tuoi deliri, perché non cerchi un modo per tirarci fuori?" Mi dice.
"Vuoi la prova che non mento?
Che davvero mi ricordo ogni cosa?
Guarda sotto il letto, ci sono tre mattonelle più grandi. Solleva quella di sinistra.
ATTENTO! quella di sinistra ho detto.."
Mi volto verso la porta a specchio e vedo Lidio a sinistra della stanza che osserva Luigi andare sotto il lettino, sollevare la mattonella e tirar fuori due sacchi.
"Aprili. Lì c'è parte del vostro bottino. Una buona parte è nascosto in un altro posto e il resto l'ho speso."
"Ma non farmi ridere, li hai trovati per caso e hai montato una storiella ad hoc per convincere Lidio a mettersi contro di me" mi dice.
"Già.. potrebbe essere. Ma allora come farei a sapere che nella sbarra d'angolo alla mia sinistra ci sono le chiavi di scorta per uscire da qua, se non avessi recuperato la memoria?"
Detto questo spengo la luce dentro la stanza, in modo che possano vedermi, e mi avvio verso la sbarra. La smuovo da terra svitandola come una semplice vite gigante e la abbasso, facendo scorrere l'estremità più bassa dentro il foro nel pavimento, appositamente scavato. Poi, muovo leggermente l'asta facendo entrare l'estremità più alta in un piccolo foro sul soffitto, quel tanto che basta perché riesca a "fare manovra" con la sbarra. Un volta tolta dal suo posto la porto in posizione orizzontale, e sollevo la parte che mi interessa. L'estremità in fondo.
"Vedi? Qua c'è la chiave.”
Tolgo la pellicola trasparente e tiro fuori un piccolo pacchetto. Lo srotolo e dentro c'è la chiave per aprire le sbarre.
Sento qualcuno urlare e dei rumori, come se si stessero picchiando. Poi due colpi di pistola, seguiti da alcuni secondi di silenzio.
Decido che forse è il momento di riaccendere la luce e vedo Lidio respirare affannosamente. È di profilo rispetto a me e sta osservando il corpo esanime di Luigi sdraiato a terra.
"Tu.. lurido assassino!" urla, e spara ancora un paio di colpi. Poi lo osserva, come per accettarsi che sia morto e si avvia lentamente verso il letto. Si siede, portandosi le mani fra i capelli ed inizia a piangere.
Apro la porta della cella e, per prima cosa, prendo dell'acqua dal tavolo. La tv è accesa, stanno passando il meteo. Sembra che pioverà.
Lidio mi chiama dal tubo, vuole parlarmi.
Mi avvicino.
"Ti ascolto" gli dico.
"Ascolta Matteo. Per tutti questi hanno Luigi mi aveva convinto che fossi tu l'assassino. Non ho fatto altro che accrescere il mio odio verso di te incolpandoti di quello che era successo e non ho fatto altro che desiderare la tua morte fra atroci dolori. Sono anche venuto al tuo processo. Mi ero truccato per fare in modo che tu non mi riconoscessi e per un momento ho addirittura creduto che avessi capito chi ero. Non so se ti ricordi, ma ti dissi anche chiaramente che ti avrei ucciso.
Tutto quello che volevo era solo uccidere l'assassino di mia figlia. E stavo per sbagliare persona..
Per fortuna non ho dato retta a quel bastardo e non ti ho ucciso. Adesso capisco la sua insistenza. Avrebbe voluto ucciderti subito. Preferiva aver perso tutti i soldi piuttosto che far scoprire la verità."
Poi fa una pausa e riprende a parlare.
"Sono costretto a ringraziarti, per avermi aperto gli occhi". Mi dice.
"Lascia perdere.” Gli rispondo. “Anzi che in questi giorni stavo progettando di ucciderti.
Ti ricordi del tatuaggio che ho sulla mano?
Manca una lettera, la L appunto. Lo so perché in ospedale Luigi mi chiamò Kharal e quella è l'unica lettera che manca in uno di questi cerchietti. E te ti chiami Lidio.
Ma in realtà quello spazietto era indirizzato a Luigi. Fortuna per te che me ne sono ricordato.
Ho creato una punta per ogni persona che ha rovinato la mia vita. Sai, ogni punta ha tre lati. Io ho dedicato queste punte a mia madre, mio padre e mio fratello.
Mentre i cerchietti sono perché è una metafora del cerchio della vita, ma non voglio annoiarti con paranoie filosofiche.
Ti basti sapere che il cerchio centrale era dedicato a Luigi. Hakdim ho voluto metterlo sulla stella più alta, come segno di rispetto per essere stato il primo ad essere catturato.
Ma di questo abbiamo già parlato.
Senti, adesso esco e chiamo qualcuno. Fra qualche ora sarai fuori, racconta quello che vuoi alla polizia, tanto non mi troveranno. Quando arrivano dì loro di premere questa mattonella". Gli dico, spostando un mobiletto e indicandogli col piede una mattonellina verde.
"Serve ad aprire la porta da fuori. Le chiavi delle sbarre le lascio qui sopra."
"No, lascia perdere. Non chiamare nessuno. Preferisco rimanere qua." Mi risponde.
"Sei sicuro?
Non è proprio il massimo come villaggio vacanze."
Sorride.
"Non preoccuparti, ci rimarrò giusto il tempo di trovare il coraggio di usare questa" mi dice, agitando la pistola.
Non c'è nient'altro da dire.
Gli auguro buona permanenza e mi avvio verso l'uscita. Ma prima di uscire calpesto la mattonella, azionando il meccanismo che apre la pesante porta della piccola prigione.
"Almeno, se ci ripensi, puoi sempre provare ad uscirne vivo." Gli dico.
Apro la piccola porta e percorro un corridoio di circa due metri che mi porta dentro il salone. Salgo le scale ed entro nella prima camera per fare quello di cui ho sentito più la mancanza in questi giorni:
una bella doccia.
I vestiti per cambiarsi non mancano e, una volta pronto, preparo una valigia con dentro l'essenziale per viaggiare e due sacchi di bigliettoni che erano nascosti sotto questo letto, legati alla rete. Giusto per le spesucce.
Le scale sono un problema. Adesso che mi sono rilassato il muscolo della gamba inizia a farmi male, così devo farle passo passo, con la valigia al seguito che batte ad ogni scalino.
pam.
pam.
pam.
Uno dopo l'altro.
pam.
pam.
pam.
Pow!. Mi fermo.
Buon viaggio Lidio. Se vedi Cloe dalle un bacio da parte mia.
Arrivato alla porta di casa rovisto nella giacca di Luigi.
Trovo le chiavi di casa, della macchina e la pistola, furbescamente lasciata sul tavolino d'ingresso.
"A me piacerebbe sapere come ha fatto a diventare poliziotto quello là.." penso.
Apro la porta ed esco.
L'aria ha un sapore buono, fresco, pulito.
La faccio entrare a pieni polmoni, mentre una pioggerellina leggera mi inumidisce la faccia.
È piacevole.
Chiudo gli occhi, cercando imprimere nella mente quell'attimo di pace meravigliosa che sento dentro.
Ma solo per un momento, per poi tornare alla dura realtà.
Cloe.
Tutto questo non servirà a niente, non ridarà la vita a te o agli altri. Anche se erano dei bastardi non meritavano di finire così, per mano di un altro poi. Me lo insegnasti tu.
"Se fai del male a chi lo ha fatto a te non sei migliore di loro ma solo peggiore, perché mentre il loro male può essere non intenzionale il tuo è premeditato e quindi sei una persona più orribile di quanto non lo siano loro."
Ricordo ancora queste parole. Chissà, magari le hai lette da qualche parte o davvero sono uscite dal tuo animo così gentile, anche verso chi non lo meritava.
Quello che più mi ha sorpreso è stato quando mi hai accettato nonostante quello che facessi. Mi hai veramente sorpreso.
Chissà se riuscirò ad andare avanti senza di te, o se anche io cercherò, forse invano, di raggiungerti come ha fatto tuo padre.
E mi incammino verso la macchina pensando che, in fondo, non dovrei chiedermi come finirà, visto che io lo so già.
Mentre scrivo le mie ultime righe mi trovo in una stanza d'albergo. È passata una settimana da quando ho lasciato la mia prigione, per riuscire a trovarne solo una più grande. Durante il viaggio mi sono spesso domandato cosa è la libertà. Si, perché a pensarci bene, la libertà, è un concetto strano. Puoi essere libero nel corpo ma non nella mente oppure il contrario e, in tutti e due i casi, sei sempre solo un prigioniero.
Comunque.
Adesso farò l'unica cosa che mi è possibile. Poserò la penna e aspetterò. Aspetterò che qualcuno legga quello che ho scritto, la mia storia, e decida se davvero io sono il mostro o se lo erano loro. O se il vero mostro altri non è che Luigi. E sarà quello il momento in cui tutti saranno vendicati. Mio padre, mio fratello, Cloe e tutti gli altri.
Chissà cosa starà facendo Massimo adesso. Non vi ho ancora parlato di lui, vero?!
Beh, mi dispiace ma non lo farò adesso. In fondo ha ben poco a che vedere con tutta questa storia.
Anzi, non c'entra assolutamente niente, quindi dimenticatelo.
Adesso scusate, ma devo decidere se e come continuare ad andare avanti e cosa fare della mia vita.
Capitolo 13
epilogo.
bang.